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Dalla Corona di Cristo ALLE SACRE SPINE DI ARIANO                                                                  

di Nicola d’Antuono

A cura Pro Loco Ariano E.P.T. Avellino tip. Lucarelli 1970

Il tempo, i luoghi, la scarsità di notizie storiche, la mancanza di archivi altamente specializzati, inducono chi si accinge per amore delle antiche e sacre cose, a meditare sullo che l’uomo dà e ha dato attraverso i secoli a tante reliquie che sono gli avanzi della prisca gloria, frutto di avvenimenti celebri che la storia annota e tramanda nel tempo, perchè le generazioni future, continuatrici del processo storico,essendo le uniche depositarie di si cari ricordi, ne traggano, alla luce della fede e della ragione, i più alti insegnamenti.

Le sole cose che ci restano sono gli scritti di quei pionieri delle cose antiche che, più fortunati di noi, rifacendosi ai pochi cronisti del tempo, pur non essendo talvolta i diretti testimoni oculari di quei lontani avvenimenti, seppero cogliere i fatti più salienti e conservare nelle loro pregiate opere, sicure e inoppugnabili notizie di ineccepibile valore storico, che sebbene talune volte anacronistiche, ci pervengono come racchiuse in un aureo scrigno, pronte a sfidare l’aspra critica del più crudo ed inesorabile razionalismo.

S. Paolino, Tertulliano, S. Agostino, e, per arrivare ai tempi più prossimi a noi, gli studiosi di storia sacra : il Moroni, il Grutzer, Tommaso Bartolin, il Baillet., il Calmet, il Russel, l’Hasselquist e così via, non hanno valore assoluto e determinante in quanto mancano le fonti originarie di ricerca, per la qual cosa chi si accinge a frugare nelle antiche donazioni regie, non può non pensare, ad ogni infruttuosa ricerca, ai plurimi fattori contingenti, ai saccheggi, agli incendi e alla vastità degli eventi storici, che si perdono nell’oscurità dei tempi e dei luoghi, ove l’elemento storico si fonde con la tradizione e si perde nella leggenda.

Il nostro, vuol essere, dunque, solo un lavoro di cronaca e di attenta ricerca con l’intento precipuo di coordinare notizie, fatti e avvenimenti, tratti da scrittori antichi, la cui testimonianza non ci porta solo a fissare tappe salienti nella apoditticità del “ vero storico” ma altresì ci induce ad una analisi più vasta e comparata e ad una raccolta più sistematica che, partendo dalle vicende storiche generali, includa quelle particolari delle Sacre Spine che si conservano nel duomo di Ariano. Alla morte di Gesù di Nazaret «essendo già sopraggiunta la sera, siccome era La Parasceve. cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea» (S. Mar. 15 - 20) si recò da Pilato per chiedergli il corpo di Gesù.

« Egli comprato un lenzuolo e deposto il corpo, lo avvolse nel lenzuolo e lo mise in un sepolcro che era stato scavato nella roccia, poi rotolò all’entrata del sepolcro una pietra» (S. Mar. 15-20)

Nessun evangelista parla dettagliatamente degli strumenti della passione, dopo la morte, ma essi dovettero essere tolti e conservati con sacra venerazione dagli amici di Gesù, come pure dalle pie donne che lo avevano seguito dalla Galilea.

Gregorio di Tours, vissuto nel 500 e il Beda nel 600 ci hanno tramandato la immensa devozione delle Sacre reliquie di Cristo e lo stesso Tertulliano ci tramanda che i soldati, per riverenza alla incoronazione di Cristo, ricusassero di portare sul capo ghirlande di fiori e che lo stesso Goffredo di Buglione, incoronato re di Gerusalemme, rifiutasse di portare la corona imperiale, o come vuole il Moroni, portasse sul capo una corona di paglia lucente e, come altri dicono, addirittura di spine.

Già nel 326 dell’era cristiana l’Imperatrice Elena (santa) di ritorno dai pellegrinaggi in Terrasanta portò seco insigni reliquie: una parte della croce e il titolo - (partem Crucis, titulum et alias Reliquicis - Baronio) e, si dice che regalasse alla Basilica di -Santa Croce due spine della Corona di Cristo e che, come l’Alapide asserisce, le abbia viste personalmente

- Vidi a Roma due Spine della Corona di Cristo, che S. Elena trasferì da Gerusalemme a Roma nella Basilica di Santa Croce –(Vidi duas huius Christi Coronae Spinas Romae, quas S.Helena ex Jerusalem Romam in Basilieam S. Crucis trastulit).

Il primo a parlare della corona di spine fu S. Paolino nel 409- Epistola ad Macarium, XLIX, 14 - Aimone parla del viaggio che Germano (santo) fece in Terrasanta nel 561 e si dice che recatosi in visita da Giustiniano Imperatore, questi volle fare omaggio al venerabile vescovo di aurei doni, ma il buon prelato volle che 1’ imperatore lo facesse ricco di sacre reliquie. Si sa che ricevette dall’ imperatore. oltre ad insigni reliquie di martiri, anche due spine della corona di Cristo, che furono deposte nella Cappella di San Vincent de Paris.

Cassiodoro, nel Commentario del Salmo 86, afferma che la Corona trovavasi a Gerusalemme, e Bernardo, il monaco, nell’870, scriveva che la corona trovavasi nella Basilica di Sion.

Il Merra in Monografie Andriesi (BO 1906) così scrive -

Nel primo volume della Cronaca del Monastero di Abingdon, a pag. 88, vi è il capitolo intitolato: « Dei doni, che Ugo Capeto, re di Francia, mandò ad Adelstano, re d’ Inghilterra – Egli continua - « In questo capitolo, si narra come, verso il 987,Adelstano, re degli Inglesi, avendo in tempo di Pasqua tenuto un generale parlamento presso Abbendonia con i suoi conti e baroni, fu visitato da alcuni ambasciatori del re di Francia Ugo, soprannominato Capeto, i quali gli offrirono oltre abbondanti doni di oro e argento, insigni reliquie: una porzione della Corona di Spine, un pezzo del chiodo del Signore…etc. (Ingulphus, Historia Monasterii Crojlandensis Apud Pertz, Script. t. x, p. 460.

Nel 1205 Filippo Augusto, re di Francia donava alla chiesa di San Dionigi una Spina facente parte della Sacra Corona, ricevuta in dono da Baldovino I, che custodiva tutta intera nella cappella di Buccaleone a Costantinopoli.

Caduta Costantinopoli in mano dei Crociati nel 1204, Baldovino di Fiandra ritenne con sè la Corona di Spine trovata in Costantinopoli (Rohrbacher..), ma i Saraceni ed i Greci, tentarono sempre d’impossessarsene. Pertanto, profittando dell’assenza di Baldovino, Giovanni Vantaccio con le milizie cingeva d’assedio la città occupata dai Francesi. Intanto Baldovino alla notizia dell’assedio, raccoglieva in Francia uomini e oro per soccorrere i suoi, e Luigi IX (santo) per l’occasione, nell’intento di dare il suo valido contributo, cedeva la Contea di Vanicer. Solo allora Baldovino, dopo aver realizzato i suoi piani militari in segno di gratitudine, donò a Luigi IX la Corona di Spine. Era l’anno 1239.

Ad una attenta analisi le notizie innanzi riportate si presentano ovviamente anacronistiche e contrastanti, per la qual cosa non riesce comprensibile come la corona si trovasse nel 987 in Francia, giusta l’affermazione del Merra, e nel 1204 in Costantinopoli ove trovavasi ancora tutta intera.

Trascuriamo tali discordanze cronologiche e, coerenti, come siamo, al nostro abito mentale, al fine di evitare vane congetture ed ipotesi scarsamente probanti, continuiamo la nostra disamina storica. Ci limitiamo solo ad ammettere ipoteticamente che il sacro serto giacente nella nuova Bisanzio non doveva essere del tutto intero nella data testè riportata e che la “porzione della Corona di Spine” deve intendersi limitata nel numero, due o poco più, insieme con il pezzo di chiodo del Signore”, per una illazione del tutto personale ed arbitraria dello storiografo circa la consistenza quantitativa delle spine formanti la Corona del martirio di Cristo.

Partirono subito due inviati, Fra Andrea di Longiumò, da poco tornato dall’Oriente e un’altro religioso, che conosceva molto da vicino quei luoghi, nonché l’autentica della Corona di Spine, anche perchè come apostolo indefesso del Cristo, questi, per molti anni, aveva portato in quei luoghi l’affiato della cristianità.

Lo stesso Baldovino vi aveva mandato un suo inviato con akune lettere credenziali, sulla scorta delle quali la corona venne ceduta ai Veneziani al prezzo di lire 160mila.Quel giorno venne ratificato il contratto di cessione del sacro inestimabile tesoro e se ne fissò la data del riscatto.

Era il 19 giugno dell’anno 1237.

I Veneziani finalmente erano i veri, ma temporanei padroni della corona. Infatti verso l’incipiente inverno dell’anno 1237, precisamente nel mese di dicembre, previo esame della reliquia, appostivi i relativi sigilli della regia potestà francese, la nave salpò per Venezia con a bordo anche i due legati di Luigi IX. Quivi la corona fu deposta nella Cappella di S.Giovanni, con a guardia Fra Andrea di Longiumò. Intanto l’altro legato raggiungeva Parigi per ragguagliare il re.

Luigi IX inviava nuovi legati a Venezia con la somma dovuta per il riscatto. Così la sacra reliquia potè raggiungere la Francia. Il 10 agosto del 1238 a Sen fu portata in processione alla chiesa di Santo Stefano, il 12 partì alla volta di Parigi ove fervevano i preparativi del ricevimento. Colà fu deposta nella cappella di S. Nicola e poi nel 1241 nella Sainte Chapelle (Santa Cappella), così denominata, fatta costruire da Luigi IX nel suo palazzo, capolavoro d’arte gotica, completata nel 1248.

Per fatti esclusivamente accidentali pertinenti ai tempi burrascosi dell’ “età di mezzo” per i reiterati sismi che hanno sempre travagliato la nostra terra, per le immancabili rapine ed incendi dovuti alle continue scorribande nemiche,non è stato possibile rinvenire documenti storici, relativi alle nostre Sacre Spine.

Però è costante tradizione che esse furono donate a Carlo I d’Angiò in occasione della sua venuta ad Ariano, forse per ripagare o meglio risarcire i danni subiti dagli Arianesi a causa dell’eccidio perpetrato dai soldati di Manfredi e per essersi tenuti fedeli alla causa del Papato.

Infatti, alcuni soldati di Manfredi, non avendo l’esercito potuto espugnare le solide mura di Ariano, tentarono con l’astuzia d’introdursi in città. Era l’ anno 1255. Pertanto questi si presentarono alle porte della città e, dichiarandosi disertori, chiesero di combattere per la causa papale. La buona fede vinse la diffidenza degli Arianesi, i quali li accolsero nelle loro mura, ma quelli, durante la notte, uccisero le sentinelle ed aprirono le porte all’esercito saraceno. Orrore e morte invasero in breve la città, edifici diroccati, chiese bruciate, ovunque morte e distruzione; la maggior parte dei soldati, sorpresa nel sonno ed altri. svegliati di soprassalto, impreparati e disarmati, furono barbaramente trucidati. Sembra che la porta. in prossimità della piazza, abbia preso il nome di Carnale, a ricordo di sì orrenda strage.

Alessandro IV (1254-1261) e poi Urbano IV, per i delitti commessi da Manfredi e soprattutto per la distruzione della città di Ariano (vidilicet super destructione Civitatis Arianensis), lo scomunicarono, ma Manfredi non ne tenne in alcun conto. Clemente IV (1265-1268) che successe a Urbano IV (1261-1264) fu costretto a chiamare in Francia Carlo I d’Angiò, fratello di Luigi IX (santo), che fu incoronato re di Napoli e Sicilia.

Ben presto Carlo riportò varie vittorie e, dopo aver sconfitto l’esercito di Manfredi presso Benevento, in cui vi cadde ucciso il nipote di Costanza nel 1266, fatto altresì decapitare senza pietà Corradino di Svevia a Napoli nel 1268, rimase padrone assoluto del Napoletano e della Sicilia.

Essendo fratello di Luigi IX dovè portare con sè alcune spine ed infatti si dice che ne regalò una alla cattedrale di Napoli.

Dopo che Carlo I d’Angiò ebbe restaurato il regno, oompensò coloro che avevano partecipato alla sua conquista. Ariano toccò, insieme a Montefusco. Laurino, Paduli, Pungoli etc. a Enrico di Valdimonte, intimo amico del re Franco. Era il 27 giugno 1269. Fu in questa circostanza che Carlo dovè recarsi in Ariano e, avendo constatato di persona lo stato pietoso in cui era caduta la città, si diede a ricostruirla, riattò le chiese ed il castello gravemente diroccato. Fu in questo periodo che furono donate agli Arianesi due spine della cristica Corona consegnate “coram populo “ al Vescovo Pellegrino.

L’AUTENTICITÀ DELLE NOSTRE SPINE

Come innanzi dicevamo, per la carenza di documenti concernenti la sacra donazione, risulterebbe infirmata ogni autenticità se, da un attento studio comparato, la conformazione o meglio l’aspetto “unico della specie” di alcune spine, non ci dicesse e ci ragguagliasse circa la loro medesima origine.

Siffatte Spine, a conferma di quanto affermiamo, sono da ritenersi tutte autentiche non solo perché debitamente convalidate quasi sempre da relativo diploma di donazione, ma altresì dall’aspetto o forma particolare che ci portano a dedurre che la fonte di provenienza deve essere necessariamente la stessa. Eppure. se così non fosse. non riusciremmo mai a capire perchè, sin dai primi secoli della Chiesa, siffatte reliquie furono sempre oggetto di grande e profonda venerazione

Tuttavia la storia, intesa come narrazione degli avvenimenti umani con giudizio del loro valore e dell’opera degli uomini, non sempre può narrarci tutto integralmente. Perchè? Molteplici sono i fattori di simili naturali omissioni o di siffatti vuoti spazio-temporali. Spesso è la voce genuina del popolo che tramanda e perpetua nel tempo . avvenimenti lontani colti nella loro bellezza e suggestività.

Infatti dove la storia è carente, subentra la tradizione, la quale, essendo la “parastoria” degli umani avvenimenti, trasmette oralmente da generazione a generazione le antiche memorie di fatti realmente accaduti anche se spesso vengono alterati nella forma, e non nel sostrato contenutistico dall’alata fantasia popolare. Ma questo non può riguardare la nostra disamina e, per non digredire, riprendiamo la nar razione interrotta.

E’ tradizione che Carlo I d’Angiò abbia donato un spina a Sulmona, un’altra a Gifoni, un’altra ancora ad Andria e due ad Ariano. Infatti cosi scrisse il Flammia, ma, se cadde in errore per mancanza di documenti circa quella di Andria, non poteva non essere nel vero per quanto concerne la stessa origine e la stessa provenienza delle Sacre Spine.

Quella di Andria, però, non fu donata da Carlo I, ma da Beatrice d’Angiò, figlia di Carlo II d’Angiò e moglie di Azzo VIII d’Este, che sposò, poi, Bertrando del Balzo nello anno 1308 (vedi Monografie Andriesi di Merra-Bicordi di Andria Sacra di G. Ruotolo).

Però, prima di esaminare e confrontare le tre Spine in questione, è opportuno citare un documento trascritto nel 1586 da Luca Antonio Resta. Vescovo di Andria. Esso, ricco di suggestiva, poetica bellezza, è scritto in esametri incisi su teca artistica e originale che noi riportiamo integralmente, seguita da relativa traduzione.

Sulla teca originale erano incisi i seguenti esametri:

omissis

che in italiano suonano così:

“ Ecco una delle tante maggiori spine della Corona, con cui le mani crudeli (dei Giudei) trafissero le tempia sacrate di Gesù. Quando concorrono la Parasceve ed il venticinque di marzo,come è antica tradizione, allora questa, oh meraviglia!, si vede tutta insanguinata, imperciocchè suol essere aspersa di alcune gocce di sangue. A noi Carlo Il Re di Sicilia, la portò da Parigi, città capitale della Francia. Con cuore devoto, e con ginocchio piegato deve venererai questa del Redentore, che di roseo sangue bagnossi, quando, vendicatore dell’umana scelleratezza, tollerò le spine, come altrettanti aghi.

Cantiamo gratissimi cantici: Gloria al vincitore, e perenni monumenti di vittoria, imperciocchè con la fronte irta di spine fiaccò la potenza di Satana. Preghiamo tutti, affinché il Signore, per tanto pegno qui portato, gli conceda il felice regno del cielo”.

Ora volendo stabilire un raffronto tra la descrizione della Spina di Andria con quella che concerne le nostre due Spine, constatiamo ovviamente che esse appartengono alla Corona in quanto hanno la medesima struttura. Nulla da eccepire a riguardo perchè le abbiamo confrontate da vicino.Pertanto è bene citare, per quella di Andria, la descrizione del Vescovo Staiti: “La nostra spina-egli scrive -è lunga quattro dita e della grossezza di un grosso filo di spago, nel basso finimento; è di color cerognolo , ad eccezione della punta semifranta, che va a finire ad ago, e che è di color suboscuro. In esse si scorgono quattro macchie di color violaceo dalla parte di dietro alla incurvatura, ed un altro patente nel lato davanti, oltre ai molti altri punti a stento reperibili”.

Per quelle di Ariano ci serviremo della descrizione del Flammia: - Sono due: una alta quasi 7 centimetri, l’altra 6. Sono fini come uno spillone, dure, biancastre, meno la punta che. è scuro..

Il nostro Flammia ha omesso di dire che in alcuni tratti della superficie si riscontrano alcune macchie oscure. Esse sono conficcate in un ostensorio d’argento a forma di torretta gotica, la più alta nel mezzo, la piccola nel piano superiore.

Circa l’autenticità delle nostre Sacre Spine non ci sono più dubbi. Ma le altre sparse in molte Chiese d’Italia sono veramente tutte autentiche? Come è possibile che in Italia e altrove si contano centinaia di spine? Noi ci asteniamo dall’esprimere un nostro personale giudizio in quanto non le abbiamo tutte osservate da vicino.

In Alcuni articoli del Tursi (Avvenire d’Italia 19 - 20 marzo 1932) leggiamo: - Le Sacre Spine sono sparse in molte chiese. Al principio del secolo scorso Gosselin enumerava 27 Sacre Spine distaccate dalla santa corona ; nel 1882 R. De Fleurj ne contava 103; presentemente le cronache e gli inventari ce ne fanno conoscere un maggior numero.

Certamente se si consideri quale quantità prodigiosa di spine potesse contenere una massa di piccoli rami spinosi, riuniti insieme con un cerchio di giunchi sulla testa di nostro Signore Gesù Cristo, non andremmo lontano dal vero, affermando che siano state alcune centinaia. La maggior parte di esse sono semplici, isolate: alcune altre sono riunite su piccoli rami di due, tre, quattro. e cinque.

Com’è possibile questa quantità di Spine sparse in molte chiese del mondo? Non dobbiamo meravigliarci circa la molteplicità delle Spine esistenti. se si tiene presente la forma della Corona di Cristo L’iconografia sacra, nelle sue rappresentazioni. ci ha dato immagini falsate della vera corona. Essa, infatti, non era formata da una semplice fascia irta di spine che cingeva la fronte di Cristo, ma, come da testimonianza di scrittori antichi, era a «mo’ di pileo» (ad modum pilei - S. Vincenzo).

Il pileo era un cappello conico o ovale di pelle a volte di feltro in uso presso i Romani. Così scrive S. Vincenzo: - e posero sul capo aria corona, che lo ferì crudelmente in settantadue parti, infatti era a forma di pileo, da coprire e toccare il capo in ogni parte (et capiti eius imposuerunt coronam, quae eum septuaginta duobus locis crudeliter vulneravit, nam erat ad modum pilei, ita quod undique caput tegeret et tangeret).

Quale la natura delle Spine? Gli autori di storia sacra sono discordi sulle specie di spino che trafisse la fronte del Cristo.Alcuni asseriscono che fosse lo spino comune (il Rubus) altri il ranno (Rhamnus), altri l’acacia (in greco acanthè, spino),altri dicono fosse di giunco marino. E d’uopo ora passare in rassegna alcuni autorevoli autori.

Il Durand afferma di aver visto da vicino la Sacra corona e che essa è formata di giunco marino le cui spine sono lunghe e appuntite.

Il Baronio, impugnando una simile affermazione, ritiene che essa fosse intessuta di spine di ranno, e dello stesso parere sono il Grutzer, il Bellonius, e, andando a ritroso nel tempo, San Girolamo e San Gregorio Nisseno.

Il Searcer asserisce invece che fosse la brancorsina, mentre lo Hasselquist opta per una pianta simile all’ellera o per il pruno spinoso di Linneo.

A conclusione cosj si esprime il Tursi: - E’ singolare,però, che uomini degni di molta considerazione, come per esempio Benedetto XIV, Baronius, Grutzer Mamacus, Joseph Averanius, G. Muller siano stati poco d’accordo su di un fatto così facile a constatare, qual è quello della natura della Corona di Spine di cui abbiamo reliquie molto importanti. Gli scrittori sacri parlano di giunco e di rhamnus e le reliquie, ben osservate. ci fanno vedere del giunco e del rhamnus.

La corona di Cristo, dunque, data la foggia dovè essere prima intessuta di ranno e poi legata in più parti col giunco.

Auspichiamo che questo nostro modesto lavoro non sia stato del tutto vano anche se, ne siamo convinti, non raggiunge l’effetto desiderato.

Che gli Arianesi, però, sappiano sempre tenere nella dovuta stima un così inestimabile tesoro e che ricorrano in tutte le terribili calamità alla potenza taumaturgica delle Spine del Cristo; potenza non insita, come per un fenomeno di “ simpatismo occulto” nella loro particolare composizione chimica, ma scaturente dalla Onnipotenza divina, creatrice e conservatrice del cosmo infinito.

Che essi si dèstino e rinfocolino la loro fede in attesa che, per bontà divina, si ripeta in Ariano il prodigio dell’anno 1932. Era il giorno della Parasceve (venerdì santo), che, quell’anno, coincideva con la ricorrenza della festività dell’Annunciazione di Maria SS. (25 marzo). Essendo venerdì santo, il Capitolo non si era raccolto nel Duomo, come gli altri giorni dell’anno, per la recita del consueto ufficio di vino dell’ora terza. In sagrestia c’erano soltanto alcuni canonici, quando il mansionario Don Giuseppe D’Alessandro, ricordandosi di quello che, in simile occasione, si verifica in Andria, volle con i suoi confratelli osservare « de facie » le le Sacre Spine racchiuse nel reliquiario.

« Mirabile dictu »: le due spine presentavano in più punti piccole e rossastre chiazze sanguigne.

Non aggiungiamo altro.

Il nostro racconto, a cui attribuiamo, in ossequio ai decreti di Papa Urbano VIII, una fede puramente umana, potrebbe anche non avere attendibilità scientifica: cosi sembrerebbe, ma in effetti non lo è. Altri direbbe: forza psichica collettiva, maqica o biotica.

Noi invece, optiamo per il « soprannaturale », e, tralasciando ogni altro dettaglio, diciamo che non intendiamo polemizzare circa tali fenomeni. nè tanto meno il nostro lavoro e le ricerche ad esso pertinenti, ci consentono simili disquisizioni d’ordine teologico e, in linguaggio scientifico « paranormale o parapsicologico.

L’avvenimento inconsueto, per nulla propalato, l’abbiamo descritto cosi come ci é stato raccontato, e, dal momento che esso ci è giunto da pura fonte, non teme smentita.

Il prodigio si ripete, come ad Andria, ogni 20-30-40 anni,allorquando, come abbiamo testè detto, la Parasceve, (venerdì santo) coincide con la festività dell’Annunciazione di Maria Vergine (25 marzo).

Come sopra dicevamo, tutti gli Arianesi, per un simile incomparabile tesoro, avranno sempre una particolare, profonda venerazione e non lo cederebbero a chicchessia per tutto l’oro del mondo, come i nostri maggiori,nel 1600, si rifiutarono di cedere le due Spine ai Foggiani che ne fecero reiterata richiesta al Vescovo del tempo. Vengano pure, in folte schiere, gli agricoltori delle vicine contrade; si portino gementi, nel Duomo, le giovani contadine, con le chiome sciolte, cinte di biancospino o d’ellera, e cantino così «come ditta dentro» la loro nenia accorata:

“Spina pungente ca

pungisti lu miu Signore

pungimi stu còre

e cunverti lu piccatore,,

Scenda copiosa e ristoratrice la pioggia sui campi arsi dalla siccità e, all’uopo, si disperdano i densi e neri nembi apportatori di piogge devastatrici. Risplenda cosi sull’agro arianese e su quello dei paesi limitrofi il sole fecondatore e, sul mondo convulso, scenda radiosa la luce della giustizia, della carità e della pace tanto auspicata dagli « uomini di buona volontà ».

da FRAMMENTI raccolti da Lello Guardabascio -Politografica Ruggiero - luglio 1982


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