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         ARIANO 

 (CHIESA VESCOVILE)

P.P. Parzanese

1848

I

Questa città, sulla etimologia del cui nome si sono fatte mille congetture,noi la diremmo così nominata ab ara (monte o sommità secondo Giambattista Vico) e Iani, per qualche sacello edificato anticamente su questo colle in onore di Giano. Essa giace per lungo edificata sopra tre colline delle ultime degli Appennini verso la Puglia, guarda mezzogiorno e settentrione; e sta propriamente sul confine settentrionale dell’ antico Sannio Irpino.

Città è questa sorta nei primi tempi del cristianesimo; e, come asseriscono Tommaso Vitale e Nicolai, si vorrebbe sorta dalle rovine del prossimo Equo-Tutico, o da una colonia di là recatasi ad abitare le alture.(2)

Nel Principato Ulteriore, Ariano era la sola città regia, non soggetta a nessun barone; il qual diritto le costò grande dispendio, ma che forse fu la origine dei nobili e generosi animi di cui sempre abbondò.

Ariano è chiesa Vescovile suffraganea dell’Arcivescovo di Benevento, sin dal 968; e la sua diocesi si compone di Ariano, Melito, Bonito, Roseto, Monte-malo, Buonalbergo, Casalbore, Ginestra, Montefalcone, Castelfranco, Monteleone, Zungoli, Villanova. La popolazione somma a 54.000 anime circa: la cattedra episcopale è in Ariano.

Perdendosi l’origine della città di Ariano — la quale non va certamente al di là del medioevo — nella oscurità di quella lunga barbarie, nè essendovi monumenti che mettano alcuna luce in tanta ignoranza, da ciò deriva che pur s’ignori pienamente la fondazione della sua chiesa ed il secolo in cui sedette nella sua cattedra il primo Vescovo.

Si ricorda un S. Liberatore vescovo di Ariano, il quale sostenne il martirio nel 305 (Breviar. Benevent. die XV Maii), e da questo vorrebbe inferirsene che questa chiesa fosse già fondata e riconosciuta tra le prime della cristianità nel secolo terzo, senza che non le sarebbe stato dato un vescovo .

Ma sorgono tanti dubbi intorno a questo fatto, e sono così tra loro discrepanti le da cui si deriva, ed il titolo di vescovo è ancora incerto a significare in quel tempo l’ordine pontificale, che non sappiamo entrare nella sentenza di coloro i quali vogliono fondata pubblicamente la sede vescovile di Ariano, dopo la pace ridonata da Costantino all’impero di occidente.

Non può per altro revocarsi in dubbio che Ariano abbia avuto il suo Vescovo assai prima del secolo decimo: perocchè quando papa Giovanni XIII alzava a Metropoli la chiesa di Benevento, tra i suffraganei nominava il vescovo di Ariano: questo avveniva nel 969 (v.Ughel., Ital. sacr., t. 8) .

E se manca la serie cronologica dei vescovi arianesi fino al secolo XI assai inoltrato, si vuole ciò attribuire alla profonda barbarie dei tempi, alla indisciplinata ignoranza del clero, alla rovina delle chiese, all’incendio delle città ed a quant’altro sconvolse e turbò l’Italia.

Ariano nelle lunghe guerre tra l’Impero e la Chiesa favorì sempre il Pontefice; città guelfa, e spesso dimora di un legato pontificio, fu una notte presa,arsa e saccheggiata per tradimento di Federico Maletta, capitano di Manfredi, e quindi distrutti i suoi archivii. dispersi gli abitanti, rovinate le chiese, e perduta ogni memoria della sua origine e della fondazione del suo vescovado.

Infatti da molto tempo innanzi a questo disastro ebbe Ariano i suoi vescovi, poiché sul cadere del secolo decimo veniva dal papa Giovanni ordinato al metropolitano di Benevento di consacrare il Vescovo di Ariano; perchè ivi in perpetuo per lo innanzi vi era stato creato.

E noi pensiamo che non si era per qualche tempo potuto eleggere il Vescovo, a cagione degli sciami che laceravano la Chiesa, e pel tristo volgere dei tempi. Ma, come dicemmo, le memorie andarono miseramente perdute.

Il primo Vescovo arianese di cui si ha tutta la certezza fu Meinardo da Poitiers, eletto nel 1070, come attesta l’Ughelli, nell’Italia Sacra; e per la testimonianza che ne fa l’antica epigrafe scolpita in versi latini nel vecchio fonte battesimale, tuttora esistente nella chiesa cattedrale di Ariano. Fu questo Meinardo che intervenne con parecchi altri vescovi alla consacrazione della chiesa di Monte-Cassino fatta dal Pontefice Alessandro II nell’ottobre deI 1071 (V. Cr. Casinen., pag. 171 e Tosti, Storia di Montecassino, nei documenti).

Nella cronaca di S. Sofia leggesi pure che egli sia intervenuto nel sinodo provinciale, tenuto in Benevento dall’Arcivescovo Milone nel 1075.

Da questo tempo si ha con pochi interrompimenti la serie dei Vescovi di Ariano, provata con documenti solidissimi.

Perocchè leggesi di Gerardo, secondo Vescovo (per quanto pare) che consacrato verso il 1098, siasi recato in Terrasanta coi crociati per accompagnare Goffredo di Rossiglione suo fratello (Gugl. Tir., lib. I, cap. 14). Nel 1179 è tenuta memoria che un tal Bartolomeo, Vescovo di Ariano, fosse stato uno dei padri del concilio Lateranese convocato da papa Alessandro III (Act. Concil.).

Infine tra l’epistole di Innocenzo III ve ne ha una inviata ad un Vescovo di Ariano, innominato, perchè esaminasse se la elezione dell’abate di S. Salvatore a Telese fosse canonica; e trovatala legittima l’avesse benedetta e confermata.

A chi piacesse leggere la serie dei vescovi Arianesi potrà ricorrere all’Ughelli, al Roberto, il quale pubblicò un opuscolo intitolato: Cotalogus Episcop. Arian., e meglio di tutti all’ erudita storia di Tommaso Vitale.

Molti prelati si troveranno che fiorirono per santità di vita e per elevatezza d’ingegno.

Fra quelli che da noi sono meno remoti, primo degno di memoria pare Urso da Leone, nativo di Ariano.

Creato vescovo nella sua patria nell’anno 1449, fu insigne oratore dei suoi tempi, ed uomo di vasta erudizione e di grande prudenza.

A rilevare la disciplina del suo clero, convocò vari sinodi diocesani nei quali apparisce quanto gli fosse a cuore la gloria del Santuario e la santità dei sacerdoti.

La Cattedrale in gran parte diroccata dal terremoto del 1456 riedificò, superando grandissimi ostacoli, i quali principalmente sorgevano dalla mancanza di pecunia. Provvide la sua chiesa di preziose suppelletti, ed ai poveri fu di larghissimo aiuto e consolazione.

Possano molti imitare l’esempio di Lui.

Alfonso de Ferrara, o come molti dicono, de Herrera, eletto Vescovo nel 1585, ebbe anima piena di apostolica carità, e riguardò gelosamente al decoro della sua chiesa.

A sue spese fu costruito nella cattedrale un bel coro, poichè da lungo tempo i suoi antecessori non avevano pensato a rifarlo. Fondò (opera santissima) un monte di pietà, e stabilì rendite per quattro annui maritaggi a soccorso delle fanciufle povere.

Iddio gli ha data la mercede della gloria, e gli uomini benedicono alla sua memoria.

Non meno memorabile vuol giudicarsi Diomede Carafa, figlio del duca di Ariano, entrato Vescovo nel 1512. A lui si debbono vari .abbellimenti fatti nella chiesa e a gran parte del palazzo vescovile, generoso e magnanimo, fu creato cardinale di S. Chiesa da Paolo IV pontefice; ed in Roma divenne molto dimestico di quell’angelo di carità San Filippo Neri.

Vittorio Manso, cassinese, prima Vescovo di Castellamare, passò in Ariano nell’anno 1603. Dotto maestro in divinità e della ragione espertissimo.

Ottavio Ridolfi, poi cardinale, assunto al vescovado nel 1613, lasciò di se bella e non peritura rinomanza. Coi poveri largo dispensatore di aiuti, mantenitore geloso della disciplina ecclesiastica. Da lui la chiesa di Ariano ebbe il bellissimo pulpito lavorato a marmi, la statua di S. Ottone, ed il fonte battesimale scolpito a vaghi fiorami e belli rabeschi; rialzò il seminario, restaurò il palazzo; ed ebbe a vicario quel celebre Squillante, alacre ingegno ed erudito.

Di bell’anima e di sante intenzioni fu monsignor Tipaldi, il quale la chiesa cattedrale e quella di S. Angelo rovesciate dal terremoto nel 1732: dalle rovine rialzò; ma con poco ordine e giudizio, sicchè la prima ebbe mezza la sua facciata, ed all’altra si tolsero le due navate laterali.u A mettere termine alle giornaliere discordie che sorgevano tra i canonici , ordinò e pubblicò gli statuti capitolari nel 1737.

Monsignor Domenico Russo, creato Vescovo nel 1818, alla chiesa di Ariano a lungo vedovata del suo pastore e tra gli sconvolgimenti delle passate varietà agitata, venne egli desiderato e benedetto. Mente nutrita profondamente negli studi sacri, cuore pieno di carità, meravigliosa dolcezza d’indole, incredibile disprezzo per le ricchezze; tutto egli profuse per i poveri e per la chiesa. Sua opera le maestose scale in pietra travertina, ed il pavimento a marmi nel presbiterio, e gli altari di parecchie cappelle, ed il campanile non ancora compiuto, e preziosi argenti e belli arredi per le sacre cerimonie. Di lui parlarono con lode i giornali d’Italia e di Francia. Dichiarò suoi eredi i poverelli.

Al presente siede alla sede di Ariano, monsignor Francesco Capezzuto assunto al governo di questa diocesi nel 1838. Dalla sua anima retta e dal suo zelo instancabile verranno sicuramente frutti di santità e di dottrina nella casa di Dio.(1) Di molti illustri ecclesiastici si onora la chiesa di Ariano, e conta dai suoi canonici usciti vescovi, arcivescovi, cardinali e dottissimi uomini così nelle sacre, come nelle profane discipline, come può leggersi nell’opera Degli uomini illustri Arianesi di Franc.. Antonio Vitale.

II

Intorno alla istituzione del capitolo di Ariano non appare da monumenti nulla di certo, che valga a chiarire in qual tempo e da chi fosse stata ordinata. Di esso si fa prima menzione in un istrumento pubblico, dal quale raccogliesi che nel 1169 si pagarono ai canonici di Ariano le decime dei frutti della Bagliva e di Selvamala, le quali per le passate discordie tra la casa di Svevia ed i pontefici non erano state pagate (Istr. Notar. Herrici Ferrarii mens. Aug. 1069) Di poi nel 1307, Ermingao de Sobrano conte di Ariano e della casa di Provenza, fece donazione del casale di S. Eleuterio (suo feudo) al capitolo ed al Vescovo; ond’è che da questo il Vescovo s’intitola Barone di S. Eleuterio.

Un Rostagno Vescovo, consacrato intorno al 1309, stabili che il capitolo di Ariano non si componesse di più che dodici canonici. E questi pare che si attenessero all’antica disciplina della chiesa nella elezione dei vescovi; perocchè nel 1310, senza attendere alle riserve pontificie già invalse, crearono Vescovo un fra Lorenzo dell’Ordine dei minori conventuali; donde avvenne che papa Giovanni XXII ebbe ad ordinare al metropolita di Benevento di esaminare e di approvare poscia in suo nome la elezione. Indizio, che non ancora il clero sapeva acquietarsi al nuovo diritto canonico, surrogato all’antico.

Verso il 1344 al 45, come rilevasi da un codice vaticano e da un istrumento del 1356. il vescovo Giovanni accrebbe il numero dei canonici a 20. E pare che intorno a questi tempi il clero di Ariano sia stato fiorente più che mai, e siansi edificate molte chiese nella città e moltissime nella campagna, di che si argomenta che allora fossero numerosi gli abitanti di contado, donde provveniva nella città ricchezza ed abbondanza.

Sul principio del secolo XV il Vescovo Angelo de Raymo, secondando la pietosa opera dei cittadini, con molta solennità gittò la prima pietra della chiesa di S. Giacomo e dell’ospedale pei pellegrini. Ed ora l’ospedale è pressocchè distrutto: non vi esistendo che una miserabile casa per gl’infermi, amministrata dal comune. E per tal modo veggiamo ogni dì più che l’altro le opere di religiosa fondazione andar tristamente perdute, tosto che non hanno più a fondamento la carità cristiana.

Fu intorno a questi tempi, che la prebenda canonicale si rivolse a distribuzione quotidiana, perchè i canonici più assiduamente prestassero servizio al coro. Opera fu questa del legato pontificio Bertrando cardinale; ma non sappiamo dire che fosse conforme ai canoni, o almeno secondo la prima istituzione di questo capitolo.

Nicolò V assegnando alla mensa vescovile le rendite di S. Angelo, ora chiesa collegiata. e da prima appartenente al monastero di S. Sofia di Benevento, ordinò che il vescovo ne fosse abate e la chiesa assistita da 5 canonici. Tanto avvenne nel 1460. Ardevano gli odi e le guerre tra Carlo VIII di Francia e Ferdinando II di Aragona: ed il Vescovo di Ariano parteggiava per le armi di Francia. Ond’è che prevalendo quelle di Aragona egli fu cacciato dalla sua chiesa nel 1497, ed in sua vece postovi a governo un vicario apostolico.

Fermatasi una lega nel 1532 tra Clemente VII papa e l’imperatore Carlo V, fu stabilito nel concordato, che la chiesa di Ariano fosse come per lo innanzi, considerata di nomina regia: e però primo ad essere nominato dal re fu un fra Ottaviano Preconio dei minori conventuali, uomo per dottrina e santità memorabile.

Il Vescovo di Ariano Donato de Laurentiis, eletto nel gennaio del 1553 intervenne coi padri del concilio Tridentino, ne pubblicò solennemente i decreti nel 1564, e fondò il seminario per la educazione della gioventù ecclesiastica. Chiamato di poi in Roma, e per lui governando la diocesi il legato apostolico Pietro Antonio Vicedomini, si adoperò questi a stabilire una rendita per il teologo, il quale secondo i decreti del concilio doveva pubblicamente spiegare la Sacra Scrittura. Ma non fu prima deI 1591 che da una tassa imposta ai beneficiati n’ebbero le prebende tuttora incerte per lo teologo e per lo penitenziere ( Acta visit. 1591, pag. 44) fino a che il Vescovo cardinale Rodolfi assegnò queste due prebende su due canonicati che prima fossero vacati nel Capitolo: ed il primo canonico penitenziere venne eletto nel 1619, come il primo canonico teologo nel 1722.

Non è da tacersi che il Clero Arianese stanco di sostenere lo spoglio dei beneficiati venuti a morte, e la durezza dei collettori della camera apostolica, nel 1586 si accordò a pagare ducati trecento annui, e disporre in morte dei propri beni a proprio talento. Ma poi smessasi per la riformata disciplina questa usanza, i ducati trecento non furono pagati mai più.

III

La chiesa cattedrale di Ariano risorta più volte dalle rovine non ha nè la severa maestà delle chiese gotiche edificate nel medioevo, nè lo splendore magnifico dei templi innalzati dopo il secolo di Leone X. La sua facciata consunta in parte dagli anni mal si accorda con le nuove scale che le furono aggiunte; ma pur tuttavia mostra un non che di grande e di maestoso. Contiene in sè tre navate, che vanno a terminare verso il presbitèro a croce latina. Non quadri di buon penne1lo, nè altre sculture, che quelle condotte in marmo per ornamento del pulpito. Essa è intitolata all’Assunzione di Maria Ss. in Cielo, ed a S. Ottone Frangipani principale protettore della città. Vi officiano venti canonici fra i quali l’Arcidiacono, l’Arciprete, due Primiceri, un Tesoriere. Sei mansionari assistono giornalmente alla recitazione delle ore canoniche ed a tutti i divini uffizi; a questi fu aggiunto per curare il giornaliero mantenimento della chiesa un sagrestano maggiore.

Tra le reliquie che si custodiscono nella tesoreria, vogliono tenersi come insigni un frammento della Croce di Cristo, che si venera pubblicamente nella domenica di settuagesima; due Spine della Corona di Nostro Signore, tenute da vari secoli miracolose; nè si sa donde siano venute in Ariano, se non si volesse dire che le abbia donate a questa chiesa Carlo d’Angiò; poichè è provato che una gran parte della Sacra Corona fosse presso la Real Casa di Francia. Vi sono inoltre tre reliquie delle ossa di S. Giacomo apostolo, dei SS. Nereo ed Achilleo, di S. Giovanni Evangelista, di S. Gioacchino e di S. Luca e di più altri santi.

Delle antichità vuoi notarsi anzitutto un fonte battesimale, più sopra ricordato da noi, nel quale si dava il santo lavacro per immersione: esso è di figura rettangolare bislunga. Una volta era nell’atrio della chiesa, dove venne trasportato per opera di Meinardo Vescovo, e vi ha scolpita la seguente iscrizione di lettera longobarda:

Hos fontes sacros huc ad Baptismatis usus

Huic Praesul sanctae Meinardus contulit almae.

Pictavii natus clarisque parentibus ortus,

Martiris Ermolai ducens ex aedibus almi

Nobilium studio sibi subveniente benigno.

Qui quasi more bovum mitientes sub iuqo collum

IIos traxere pie fontes sub honore Mariae.

Bellissimo è un grosso calice, di forma quale se ne vedono nelle antiche pitture greche cristiane. Tutto di sotto e nel piede lavorato a fiori, e adorno di immagini di uccelli e di santi vagamente alluminati a vari colori. Il rozzo artefice in caratteri longobardi vi scrisse intorno al piede queste parole :

VERBVM KARNEM KRISTVM

Quanto altro vi aveva di prezioso e di raro nella chiesa. di Ariano fu involato dalla rapacità degli stranieri. Solo rimane un ostensorio di argento dorato, rappresentante un tempio gotico di fìna e meravigliosa struttura, con bellissimi trafori con ogni industria lavorati. Dono pur esso del Vescovo Urso de Leone.              

PIETRO PAOLO Can. PARZANESE

1) Dopo mons. Capezzuti si succedettero nel governo della diocesi di Ariano i seguenti Vescovi:

Mons. Michele Maria Caputo da Nardò, mons. Luigi Maria Aquilar da Napoli, mons. Salvatore Maria Nisio da Molfetta, mons. Francesco Trotta da Costa, mons. Andrea D’Agostino da Avellino, mons. Cosimo Agostino da Mammola, mons. Giuseppe Lojacono da Tropea, quem Deus diu sospitem servet.

Dopo mons. Capezzuti era stato traslato da Squillace mons. Concezio Pasquini da Lanciano, che morì poco dopo, senza prendere possesso della sede. Dopo mons. D’Agostino era stato eletto mons. Vincenzo Coppola da Carinaro, che rinunziò al Vescovato senza ricevere la consacrazione. Dopo di lui fu eletto mons. Onorato Carcaterra, che rinunziò al vescovato senza aver preso possesso (N. d. E.).

2) Nei mezzi tempi fu rinomata per coraggio, per lealtà e per sciagure immeritate; spesso arsa e saccheggiata; dai terremoti distrutta più volte; guernita di un castello inespugnabile; soggiorno di Ruggiero Normanno, che vi tenne parlamento: capo di una potente contea; patria di uomini santi e illustri.

da FRAMMENTI raccolti da Lello Guardabascio -Politografica Ruggiero - luglio 1982

 

LA BASILICA CATTEDRALE

II Duomo è dedicato all’Assunzione di Maria SS.ma. Del suo primitivo edificio si sa solamente che fu rovinato da un terremoto nell’anno 988 (89 o 90 secondo alcuni), e, in breve tempo riattato, rimase in piedi fino al 1255, quando dalle milizie del Re Manfredi, entrate proditoriamente in Ariano, il 5 aprile, fu distrutto con tutta la città, che lodevolmente si era sempre mantenuta fedele al Sommo Pontefice.
Il nuovo Re Carlo I d’Angiò riedificò tutti i luoghi distrutti dai nemici del Papa; e tra questi anche Ariano col suo Duomo, il quale fu completato molto più tardi, cioè nel 1309. Questo nuovo edificio però, fu devastato dal terremoto del dì 8 settembre 1349, e poi di nuovo rovinato dal grande terremoto del 5 dicembre 1456, che, come asserisce il Barberio, era stato profetato da S. Ottone Frangipane, nostro principale protettore, circa tre secoli prima. Il Vescovo di quel tempo, Orso de Leone (arianese 1449-1470) si accinse a rialzare il sacro edificio con salda e maestosa costruzione, della quale ancora si ammirano avanzi nell’antico soccorpo (oggi cosa privata) e nella parte inferiore dei pilastri interni (ora intonacati); mentre niente più rimane delle altre fabbriche anteriori. E per tale opera, il De Leone, trovandosi esausto di mezzi per avere largamente soccorso i danneggiati del terremoto (che colla morte di duemila cittadini aveva cagionato grandissima desolazione), domandò un sussidio al Pontefice ed al Capitolo cattedrale. In seguito il Duomo fu completato ed ornato con grandi spese, fattevi dal Vescovo successore Giacomo Porfida (romano, 1470-1480). Due altri Vescovi e cittadini arianesi, Niccolò De Ippolitis (1499-1511) ed il Cardinale Diomede Carafa (dei duchi di Ariano, 1511-1560), al principio del secolo XVI, vi aggiunsero il primo lo splendido frontespizio, che, quantunque un pò guasto dal tempo, ancora esiste, ed il secondo l’atrio con la ricca decorazione del lato meridionale verso la piazza (distrutti dal tenemoto del 1732), di cui rimane solamente il bellissimo portale della porta minore. Quasi del tutto rovinato fu il Duomo dal terremoto del 5 giugno 1688; lo rialzò il vescovo Giovanni Bonilla (carmelitano spagnuolo, 1689-1696) con denaro proprio e con le offerte di varie persone, tra le quali fu notevole quella del pontefice Innocenzo XI. Lo stesso Bonilla riparò anche i danni recati dal terremoto del dì 8 settembre 1694. Altri danni rilevantìssimi ebbe il Duomo dal terremoto del 14 marzo 1702 i quali con lievi spese riparò il vescovo Giacinto Della Calce (teatino salernitano 1697- 1715). Pel terremoto del 29 novembre 1732 crollò il Duomo con l’Episcopio, molte chiese ed altri edifici e perirono centosessanta
persone.
Il vescovo Filippo Tipaldi (napoletano 1717-1748) fu costretto ad abitare nel convento dei Cappuccini, e l’ufficiatura corale si tenne per non breve tempo in una baracca di legno costruita nella piazza, ora denominata del Plebiscito. In pochi anni il Tipaldi, che prima del terremoto già aveva speso circa mille ducati per perfezionare e decorare la Cattedrale , completò la nuova fabbrica del sacro edificio nel 1736, dandole la struttura e la forma che ancora conserva, tutta ricoperta d’intonaco e di stucco in stile barocco, per cui scomparvero i bei pilastri ed archi di pietra massiccia, né rimase vestigia dei precedenti stili, romanico e gotico.
Ad esso, nella prima secolo XIX, il vescovo Domenico Russo (napoletano 1808-1837) aggiunse gli sfondi delle cappelle della nave destra (per renderle, in certo modo, simmetriche a quelle della sinistra, che l’ebbero e piuttosto ampii dopo il 1732) con grandi opere di muratura ed archi dalla parte esterna verso settentrione.
In seguito, negli anni 1895 e 96, il Vescovo Andrea d’Agostino ( prete della Missione, avellinese 1891-1913) emulando anche in questo i suoi più illustri predecessori, col suo finissimo gusto e con non piccola spesa, vi fece radicali ed artistici restauri, che furono solennemente inaugurati il 19 aprile 1896. La sensibile scossa di terremoto del 25 novembre 1905 danneggiò la parte superiore del presbiterio e la scala dell’ingresso principale del Duomo, che rimase chiuso per sedici mesi, e fu riparato dall’amministrazione del fondo per il culto.
L’ultimo grande terremoto del 23 luglio 1930 fece crollare la volta presbiterio e del transetto, l’altare di S. Elziario, il battistero e la parte superiore destra della facciata, lesionò archi e murature e compromise la stabilità delle volte di alcune cappelle. Tutti questi ingenti danni furono riparati dal S.P. Pio Xl, il quale, con tutto lo slancio del suo magnanimo cuore e con munificenza veramente reale, si associò al Governo nazionale fascista per lenire la grave sciagura toccata alla nostra città, nella quale crollarono anche tre altre chiese e furono molto danneggiati l’Episcopio, il seminario ed edifici sacri. Onde è doveroso che ai nomi dei pontefici ed illustri personaggi, che, nei passati secoli furono lustro ed onore e benefattori della nostra Patria, si aggiunga il nome glorioso dell’undecimo Pio, che indubbiamente resterà legato alla storia del nostro maggior tempio.
Questo, dopo tali restauri, in generale non ha mutato l’assetto che precedentemente aveva; le volte però delle navi minori, del presbiterio, del transetto, della cappella del Sacramento e di quelle del lato sinistro ora sono a crociera e non più a vela e senza gli antichi stucchi, i quali sono rimasti soltanto nelle parti del tempio non demolite. Il presbiterio, per ragioni statiche, ha avuto le finestre non più in stile e molto impiccolite e parimenti la cappella di S. Ottone ha avuto assai ridotta la luce che le veniva dalla parte interna soprastante all’arco d’ingresso.
Le fortunose vicende che, in tanti secoli, ha subito il nostro Duomo, unite alla inesperienza di persone sfornite di senso artistico,alle quali sovente, specialmente dal 700 in poi, per frettolosi eventi si è dovuto le riparazioni, gli hanno fatto perdere tutta la maestosa bellezza che prima aveva: onde esso non è più l’artistico tempio angioino o della rinascenza; tuttavia, salvo alcuni dettagli che si potranno sempre eliminare, anche ora si presenta decoroso nella sua non piccola mole.

“GUIDA TURISTICA DI ARIANO CITTA’ CAPITALE” a cura di Mario e Ottaviano D’Antuono  - Tipografia IMPARA - giugno 2001 -


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IL CASTELLO

Nel rione della GUARDIA “vi è il Castello, situato in luogo eminente, ed adatto a dominare da per tutto il circuito del territorio, e cosi impedire ogni invasione.

Da i Terremoti fu molto rovinato, di modo che al presente (1794) non vi esistono, che quattro ben grandi quasi intieri Baloardi, o siano Torrioni, ed alcune altre fabbriche.

Il suddetto castello fu edificato non tanto ad oggetto di custodire e fortificar la città, ma per impedire ogni invasione del Regno, e sostener ogni assedio in caso di guerra, come l’esperienza ne’ tempi addietro lo dimostrò, e come appunto fu rappresentato al supremo Consiglio di Castiglia in tempo di Filippo IV Re Spagna e di Napoli” “Ariano, città molto popolosa, unica città Regia nella Provincia di Principato Ultra, di somma importanza per il Regno di Napoli, con piazza d’arme e con un antico castello di non facile espugnazione, munito di torri di avvistamento, fossati a secco, mura e fortini, il quale non serve soltanto a difendere quella Provincia, ma soprattutto è il baluardo del Regno, allorquando fosse minacciato dalle anni nemiche.

Edificato in una posizione strategica e di difficile accesso, circondato da barriere naturali, scoscendimenti e dirupi, domina le valli dell’Ufita, del Miscano e del Cervaro, e, dalla sommità, le vedette spaziavano nel vasto giro dell’orizzonte, da un lato territori beneventani e di Montefusco,dall’altro verso la pianja di Camporeale e le gole pugliesi”.

“Inglobato nella villa comunale, il castello mostra le caratteristiche peculiari dell’architettura aragonese. Presenta una tipologia di forma pessoché quadrangolare con lati di dimensione diversa e torri disposte agli angoli. I lati più corti sono; il lato nord (40 mt. ca) e il lato sud (56 mt. ca.), i più lunghi sono rappresentati dal lato est (72 mt. ca) e dal lato ovest (81 mt. ca.).

Le quattro torri mostrano un basamento a scarpa in blocchi di arenaria su cui si impostano, ad una certa altezza, volumetrie cilindriche scandite da un redondone in piperno. 11 diametro delle torri varia dai 13 ai 16 metri.

Ogni torre è articolata al suo interno con alcuni vani di varia dimensione, più grandi in basso più piccoli in alto. Questi ultimi sono illuminati e areati da fori di due metri di diametro, mentre negli altri ambienti si rilevano alcune feritoie che si aprono nella spessa muratura sulla quale si individuano alcune preesistenze angioine.

Internamente le torri nord-est e nord-ovest presentano un vano in più.

Le due torri poste sul lato meridionale (sud-est e sudovest) contengono un vano che è collegato con due scale che seguono la direzione delle diagonali della pianta del castello, mentre alle torri nord-ovest e nord-est si accede mediante una scala posta a ridosso del muro settentrionale.

L’edificio di forma quasi quadrangolare, di notevoli proporzioni, datato per tipologia e caratteri tecnico-costruttivi nella fase normanna (XI-XII secolo), è situato sulla sommità del terreno posto all’interno delle mura.

E’ formato da due ambienti riforniti d’acqua mediante cisterne; il che prova la sua funzione originaria di mastio con l’abitazione del conte e dei suoi familiari”.

“Ben poco o non molto ci resta di quello che fu l’integro Castello medioevale”.

Alla fine del 1500, “la storia del Castello, diventa triste e malinconica, e comincia a cedere il posto all’importanza topografica della Città”.

“In primo uno Ponte rutto e fracassato in lo primo ingresso con ligname fracido e quasi inaccessibile. Item un altro Ponte nella porta principale di detto Castello, similmente rotto et marcito et quasi inaccessibile.

Item tutta la habitazione scoperta quasi senza solare, né pone, con una grande quantità di travi et ligname vecchio et fracito gran parte et le muraglie minacciano ruina”.

Alla pittoresca visione dello storico Gabriele Grasso che immagina “il maestro muratore, sospeso con corde ed armato di piccone e paletto perché strappasse con stento e fatica al secolare Castello le pietre per la pavimentazione di qualche strada”, noi contrapponiamo quella più realistica, anche se più tragica, di Tommaso Vitale, riportata in un manoscritto inedito che si conserva presso il locale Museo Civico.

Il nostro maggiore, mentre fuga la visione del Grasso, ci informa anche su altri superstiti bastioni che fortificavano l’intero colle del castello.

“E questo è certo mostrandolo ancor oggi i di lui avanzi, e le fabriche che n’esistono di quattro Baloardi che resistendo all’intemperie del tempo dl più secoli a i non rari strepitosi moti della terra ed anche alla violenza delle mine di polvere pure sono in buono stato con tre delle quattro cortine fuori di due altri Bastioni de’ quali ancor se ne conoscono le vestigia uno vicino la Chiesa di S. Sebastiano ed un altro da sopra la Casa del distretto della Parrocchia di S. Stefano che attaccano col largo di detto Castello”.

“Or più non resta che il povero rimpianto, ...austero e muto/ dall’insania e dai turbini corroso/resta il colosso con le vuote occhiaie”.

“Dormi, o castello millenario, dormi il tuo sonno mentre le unghie del tempo, e la mano dell’uomo ti stracceranno i fianchi; statti divoto e muto, perché gli Arianesi vi seggano pensosi di sé e della patria loro come Mario sulle rovine di Cartagine”.

I brani fra virgolette sono di: T. Vitale- N. D’Antuono - G. Coppola - L.. Fedele - N. Flammia

“GUIDA TURISTICA DI ARIANO CITTA’ CAPITALE” a cura di Mario e Ottaviano D’Antuono  - Tipografia IMPARA - giugno 2001 -


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S. OTTONE

Andrea D’Agostino Vescovo

          1892

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PREFAZIONE

Fin. dal primo giorno che la Provvidenza mi sposò a questa nobile Chiesa Arianese io l’amai di cuore, come doveva: amai la sposa, amai i figli, amai i loro beni spirituali, che d’allora in poi divenivano anche miei.

Fra questi io stimava qual prezioso tesoro la storia della vita e geste del nostro principal patrono S. Ottone; e ne andai in cerca immediatamenre. Ma dev’essere cosa molto rara, ché solo a capo di quattro anni mi è riuscito di avere le Memorie di S. Ottone stampate a Roma nel 1780.

L’anonimo autore di esse (che può essere l’Abate Potenza, come pare potersi ricavare dal Vitale, in una nota delle Memorie degli Uomini Illustri di Ariano) seguendo il giudizio critico dei Bollandisti, rigetta come apocrifa l’Autobiografia di S. Ottone; perché, scritta per adulazione e vanità non prima del Secolo XVI, è piena di anacronismi, inverisimiglianze, errori e falsità.

Rigetta egualmente tutto ciò che da sì torbida fonte hanno attinto il Barberio, il Ciarlandi, lo Zazzera, il Ferrari, l’Ughelli ed il Capozzi. Ammette al contrario come sinceri ed autorevoli monumenti tanto l’antico Uffizio di S. Ottone composto nel secolo XII o al più tardi nel principio del XIII: quanto la testimonianza di Pietro Diacono, quella di Eriberto Rosweido, e la lettera di Alfonso I.

Ora per colmare il dispiacevole vuoto che nella nostra Diocesi da tanto tempo esiste, di una vita popolare del suo santo Patrono, mi è sembrato che bastasse dalle suddette Memorie raccogliere quanto vi ha di certo, di verosimile e di sodamente probabile: ed ho fatto questo piccolo lavoro, che ora alla buona e senza alcuna pretensione presento al pubblico.

In ciò fare mi son proposto di compiere un dovere episcopale, sia col :rendere un servigio di non poca utilità al diletto mio popolo, sia col dare un attestato di fede, di fiducia, di amore a S. Ottone.

Di questa mia poca fatica avrò largo compenso, ottenendo, come spero, che la memoria ed il culto del Santo sia ravvivato nella Diocesi, e che la valida protezione di Lui efficacemente si spieghi anche sopra di me.

E perché potesse quest’operetta diffondersi per la Diocesi, ed esser letta da tutti con edificazione, ho procurato che fosse del tutto popolare: quindi dettato semplice e facile, volume piccolo, edizione di poco costo e molte copie.

Ora non mi resta che pregare Dio, affinché questo piccolo ma prezioso seme, che per me si sparge ne’ solchi della buona terra di questa Diocesi possa con la benedizione di Lui fruttificare e produrre il cento per uno.

Ariano il 1. Giugno 1892                                   Andrea d’Agostino Vescovo di Ariano

I. ORIGINE E NASCITA DI OTTONE

Dal Panvino, accurato scrittore di quanto riguarda la famiglia Frangipane, abbiamo che l’antica e nobile famiglia Anicia da Roma si propagò per l’Italia e fuori nel secolo nono dell’era cristiana. Dal primo ramo venne su a Firenze la famiglia Elisea, nominata poi Alighieri gloriosa per aver dato al mondo il sommo poeta cristiano Dante; il secondo formò a Venezia la famiglia Micheli; degli altri due uno fiorì a Napoli e l’altro in Dalmazia. Lo stipite poi della famiglia Anicia rimasta a Roma trovasi nel secolo undecimo designato col soprannome di Frangipane; e si mostra potente e valoroso, giusto e devoto al sommo Pastore, sostenendo i diritti della Santa Sede, e dando in sua casa sicuro asilo ad Urbano II, perseguitato dall’Antipapa Clemente III. Gentilizio nome di questo nobile casato era quello di Ottone, portato da molti dei Frangipane; ma il più illustre di questi Ottoni, anzi dei Frangipane tutti quanti, fu certamente il nostro caro Santo. Il quale nacque a Roma prima della metà del decimo primo secolo, e probabilmente nell’anno di grazia 1040.

II. EDUCAZIONE

Chi ha vaghezza di conoscere l’educazione ricevuta da Ottone nella sua prima età, per ammirare l’alba di quella grande virtù destinata a crescer sempre fino a sfolgorare come sole in pieno merigio, e ne interroga la Storia; questa laconicamente gli risponde che fin dall’infanzia Ottone fu dedito al digiuno ed alla elemosina. Brevissima risposta e monca in apparenza; ma sufficiente per chi la sa meditare.

La mortificazione di se stesso e la beneficenza verso gli altri non si reggono in fatti da se stesse; ma necessariamente suppongono il fondamento di altre virtù. Quindi i digiuni e le elemosine di quel benedetto fanciullo sono indizio sicuro e segno certo, che nell’animo di lui era viva la fede delle cose invisibili, sodamente fondata la speranza delle celesti ed eterne ricompense, fervido l’amore per Dio e per gli uomini, grande l’umiltà e pronta l’ubbidienza alla legge ed ai consigli evangelici.

Tanto e si belle virtù che si ammirano nella prima età di Ottone non sono forse un chiaro e forte argomento dell’indole sua generosa, della grazia di Dio abbondante, e della savia educazione ricevuta? Oh! felici educatori che trovarono la vera e pura semenza dell’educazione, ed una terra cosi atta a riceverla e farla fruttare!

Guardando a traverso la distanza e l’oscurità de’ secoli, a me sembra fra gli educatori di Ottone discernere una bella figura di donna più celeste che terrena, la figura di una madre non mondana ma cristiana, la quale seppe amare il suo figlio da vero ed educano in guisa da farne un grand’uomo, un santo.

III. MILIZIA

Progenie di eroi, all’età di quattro lustri Ottone ci apparisce ornato del cingolo militare, e pronto ad entrare coraggiosamente in battaglia. E non è straordinaria che a vent’anni si aspiri alla vita del campo ed al mestiere delle armi. Ma non tutti quelli che impugnano le armi con ardore, e le maneggiano con forza, abilità e fortuna sono eroi: l’eroismo innanzi tutto e sopra tutto dipende dalla giustizia della causa e dalla nobiltà dello scopo.

Quindi è che coloro i quali la forza, l’ardimento e l’abilità guerriera spiegano in favore dell’iniquità e dell’ingiustizia debbono ritenersi non valorosi eroi, ancorché fortunati; ma per briganti e ladroni; terribile flagello dell’umanità.

Al contrario il glorioso nome di eroe non conviene, se rettamente si giudica., che al valoroso, il quale e la forza e il coraggio e l’arte militare esclusivamente consacra al sostegno ed al trionfo della giustizia e del diritto. E tal era Ottone, che dai suoi maggiori attinto avea col sangue il vero valore, né l’occasione di darne luminosa prova si fece lungamente aspettare.

Fra quelli che nel secolo XI combattevano il principato romano e la Chiesa,da una parte erano i tirannelli di Tuscolo, che a forza di prepotenze, di danaro e d’intrighi, tentavano ed alle fiate riuscivano ad inceppare la libertà della Chiesa, sia nell’elezione dei suoi Pontefici, sia nell’esercizio della sua duplice potestà spirituale e temporale: dall’altra parte erano i tiranni Tedeschi, che usurpavano il potere dell’investiture, nominavano Antipapi, dilaceravano il seno della Chiesa, e poi scendevano a devastare l’Italia.

La guerra, ch’era perciò inevitabile, scoppiò ben presto, ed Ottone tosto scese in campo, pronto a dare non solo il sudore, ma anche il sangue, la libertà e la vita per la patria sua e per la Chiesa cattolica. Non sappiamo però se egli si unì ai Normanni per combattere i Tuscolani, sotto il pontificato di Nicola II. nel 1058-59; o pure con i Toscani nel 1062 combatté l’Antipapa Cadolao, che sostenuto da Enrico IV, levate avea le armi contro il pontefice legittimo Alessandro II.

IV. PRIGIONIA

In uno dei primi combattimenti l’ardimentoso giovane con alcuni altri suoi compagni è preso dai nemici, e carico di catene vien gettato nel fondo di una oscura torre, esposto alla fame, al freddo ed ai maltrattamenti d’ogni sorte, che quei crudeli gli fanno spietatamente soffrire.

Non so che cosa di Ottone penseranno coloro che degli uomini e delle cose sogliono giudicare non dalla moralità, ma dal successo e dall’esito.

Non sanno questi utilitarii, che l’esito felice ed infelice delle cose che si avvicendano nel tempo, che il successo e l’insuccesso delle umane azioni servono nelle mani della Provvidenza a formare l’intreccio ed il nodo del dramma della vita; e non a determinarne la riuscita. Quando poi arriva la fine di questo dramma importante, e nella catastrofe della morte sparisce l’intreccio e si scioglie il nodo, allora ha luogo il giudizio della riuscita finale: allora non mancherà certamente né la ricompensa alla virtù, né il .castigo al vizio.

Intanto la dura porta di quella prigione dopo un certo tempo si apre per i compagni di Ottone, e si richiude più pesante su di lui! Per quelli fu offerto ed accettato il riscatto; mentre per Ottone la storia non dice se il riscatto non fu offerto, o pure non venne accettato. Ma quale che in questo fatto fosse l’ignoranza, l’impotenza o la malizia degli uomini, Iddio certamente non lo permise che per cavarne un bene maggiore.

Da quello che poi segui noi possiamo giudicare, che la Provvidenza voleva provare la virtù di Ottone, temprarne l’animo a maggior forza, aumentarne il merito, e la vita tutta indirizzare a mèta più gloriosa: essa voleva che in quella tomba rimanesse interamente morto e sepolto l’uomo del mondo, e che ne uscisse in vece un uomo tutto celeste.

V. LIBERAZIONE MIRACOLOSA

Nel fondo del cuore di Ottone risuonar dovevano queste belle parole di Salomone: Dio de’padri miei, e Signore di misericordia, il quale tutte le cose facesti per mezzo di tua parola, e di tua sapienza ornasti l’uomo; affinché fosse signore delle creature fatte da Te; e affinché governasse il mondo con equità e giustizia, e con animo retto rendesse ragione: dammi quella sapienza che assiste al tuo trono, e non mi rigettare dal numero de’ tuoi figlioli (Sap. 9). Fu esaudito, e la sapienza scese con lui nella fossa, e tra le catene nol dimenticò (Sap. 10). Da essa illuminato e consolato, ai divini voleri si rassegnava, e con eroica sapienza soffriva quella durissima prigionia; dalla quale umanamente parlando non vedeva scampo alcuno.

La rassegnazione però e la pazienza non lo rendevano insensibile alla pena di quello stato infelice, né gli smorzavano in petto l’ardente desiderio della libertà. Egli bramava di potere liberamente mirare il creato, per glorificare il Creatore; bramava di esser libero della sua persona e degli atti suoi, a fine di avvicinarsi ai sacramenti e da essi attingere la grazia del Salvatore; bramava esser libero, per assistere alle assemblee dei fedeli e con essi celebrare le solennità della Chiesa; bramava la libertà per andare a vedere coi suoi occhi la vita edificante de’ Santi, e seguirli da presso per la via della perfezione, che conduce al regno de’ cieli.

Perciò con gran fiducia, con pie lagrime, con caldo affetto non cessa di pregare cosi: O Signore Gesù unigenito Figliuolo di Dio, se a Te piace, io Ti supplico di non lasciarmi più a lungo in queste tenebre ove sono di tante tue grazie privo, ma cavami dalle angustie di questo carcere, affinchè il santo tuo Nome io possa lodare e benedire.

Tranquillamente dormiva una notte abbandonato nelle braccia di Dio, quando sfolgorante di luce gli apparisce un cittadino del Cielo, che gli dice : Non temere, Ottone, perché esaudita è appo Dio la tua preghiera; ed ascolta quello che alla tua salvezza conviene. Rinunzia al mondo ed al mestiere delle armi, e prendi la via della perfezione. Dalla celeste visione scosso, si desta, e meravigliato va ripensando a quanto ha visto ed udito; ma riputandolo un semplice sogno si addormenta di nuovo. Ritorna allora S. Leonardo, e tutto addormentato come lo trova dolcemente lo trasporta in un bosco presso Roma, ed ivi sull’erba lo depone.

Nello svegliarsi, trovandosi in quel sito, dové Ottone a somiglianza di Pietro esclamare: Adesso so che il Signore ha mandato il suo Santo, e mi ha tratto dalle mani dei miei nemici. Diede poscia un colpo di pietra sulle sue catene, che divenute per virtù divina fragili come vetro caddero infrante; ed egli ne andò tutto libero e franco.

VI. PELLEGRINAGGIO

Miracolosamente liberato dalla prigionia e dai ceppi, quasi uomo risorto, cominciò Ottone una nuova vita: una vita da pellegrino che durò più mezzo secolo! Vita che il mondo non sa, né può apprezzare, quantunque abbia anch’esso i suoi pellegrini ed i suoi pellegrinaggi. I pellegrini del mondo viaggiano per sodisfare la curiosità ed evitare la noia della vita loro ed oziosa, viaggiano per vile interesse e per gloria vana, viaggia per tessere intrighi e per gabbare i gonzi, viaggiano per spogliare i semplici ed opprimere i deboli; viaggiano per fuggire la vendetta della giustizia umana, viaggiano per non sentire il rimorso della loro stessa coscienza. Per questi ed altri somiglianti motivi viaggiano i pellegrini mondani; e per il mondo ha lodi lusinghiere o almeno rispettoso silenzio, riservando il biasimo e l’irrisione ai pellegrini cristiani. Questi però tengono i giudizi del mondo in quel conto che meritano, in conto cioè di stoltezza, di malignità e d’ignoranza!

Chi poi non è del mondo ed ha lo Spirito di Dio comprende le parole che S.. Paolo scriveva agli Ebrei (cap. lI): Per la fede, quegli che è chiamato Abrahamo, ubbidì per andare al luogo che doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andasse. Per la fede stette pellegrino nella terra promessa non sua, abitando sotto le tende con Isacco e Giacobbe coeredi della promessa. Imperocché aspettava quella città ben fondata: della quale è Dio stesso stesso architetto ed edificatore... Nella fede morirono tutti questi senza aver conseguito le promesse, ma da lungi mirandole e salutandole, e confessando di essere ospiti e pellegrini sopra la terra. Imperocché quelli che cosi parlano dimostrano che cercano la patria. E se avessero conservata memoria di quella ond’erano usciti, avevan certamente il tempo di ritornarvi; ma ad una migliore essi anelavano, cioé alla celeste. Per questo non ha Dio rossore di chiamarsi loro Dio, conciosiaché preparata aveva per essi la Città.

Or come ad Abramo, cosi disse il Signore ad Ottone: Parti dalla terra, e dalla tua parentela, e dalla casa del padre tuo, e vieni nella terra che io t’insegnerò (Gen. 12) cammina alla mia presenza e sii perfetto (Gen. 17). E Ottone ubbidiente alla voce di Dio, si leva, esce dal bosco ov’era stato miracolosamente portato, sconosciuto e senza fermarvisi traversa Roma, e per sempre abbandona ricchezze ed onori, commodi e piaceri, parenti ed amici, patria e mondo: tutto egli abbandona, per mostrare anche di fuori l’interna disposizione dell’anima, che non ha qui patria permanente, ma cerca la futura; e perché la sua conversazione fosse tutta nel Cielo.

Egli è un danno che non possiamo neppure col pensiero seguire la traccia del lunghissimo suo pellegrinaggio, perché cancellato dal corso di otto secoli; e quindi contentar ci dobbiamo di dare solo uno sguardo alle poche e leggiere vestigie rimaste. Da esse argomentar si può che il pellegrino rivolse divoti i suoi passi in que’ luoghi dove o il Salvatore del mondo conversò con gli uomini, o fiorì la vita de’ Santi, o la potenza ammirabile di Dio si manifestò con prodigii, o la pietà più fervida si distingueva nel culto dovuto al Signore, o più fecondo era il campo di meriti per l’eternità, o più illustre erano le scuole di perfezione de’ monastici istituti.

VII. OTTONE ALLA BADIA DI CAVA

Una di tali illustri scuole di santità e di perfezione era indubbiamente quella che l’istituto Benedettino fondata aveva alla SS. Trinità di Cava de’ Tirreni; alla testa della quale era l’Abate S. Pietro. Vi andò Ottone, portatovi dal desiderio dell’altissima ed utilissima scienza de’ Santi, ed in quell’Abate trovò un amoroso ed accurato maestro. Il quale non solo mentre visse prese cura del diletto suo discepolo, ma anche dopo la morte scendeva dal Cielo frequentemente per istruirlo e condurlo alla più alta perfezione. Questo fatto mirabile si legge nella Vita di S. Pietro Abate, la quale si conserva nell’archivio di quella Badia.

E probabile che stando colà vestì Ottone l’abito religioso e professò l’Istituto Benedettino, la cui regola egli osservò con tanta esattezza, che S. Benedetto ne fece lodevole menzione in quella apparizione, che Pietro Diacono racconta nel suo libro De inventione, et Miraculis S. Benedicii. In un combattimento seguito in Puglia, un soldato fatto prigioniero e stretto fra’ ceppi, fu chiuso in un sotterraneo dove orribilmente soffriva. Ispirato dall’alto, pieno di fiducia si rivolge per soccorso a S. Benedetto; che apparendogli tosto lo libera, e poi gli dice: Per la tua liberazione va sollecitamente a ringraziare Dio a Montecasino; ma le catene onde fosti avvinto, che ti sarebbero d’impedimento in si lungo viaggio, sospendi al sepolcro di Frate Ottone il Rinchiuso; il quale ha la mia regola perfettamente osservata.

Durante il tempo di sua dimora a Cava si occupò Ottone nel lavoro manuale, sia perché dalla regola prescritto, sia per sdebitarsi in qualche modo della ospitalità che riceveva, non volendo mangiar il pane altrui gratuitamente. E poiché gli fu affidato l’ufficio di Vestarario, egli prendeva cura delle vesti dei Religiosi; e probabilmente non solo le conservava e le distribuiva ma le cuciva e rattoppava al bisogno. Sogliono i Santi a preferenza amare le occupazioni più basse e più penose; e ritengono come benedizione del cielo il poter rendere un servigio al prossimo per amore di Dio.

VIII. OTTONE A MONTEVERGINE

U nobile giovinetto Vercellese, sullo scorcio del secolo XI, non compiuto ancora il terzo lustro, cominciò la sua vita di pellegrino recandosi a Compostella accompagnato dalla pietà e dalla mortificazione. Appena poi è di ritorno in patria da questo primo pellegrinaggio, vuol muovere verso l’oriente per venerarvi il Santo Sepolcro del Signore; ma destinato da Dio a santificare ed illustrare l’Italia non solamente con l’edificazione della vita e coll’operazione dei miracoli, ma con l’istituzione altresì di una nuova comunità religiosa, mille ostacoli sorgono ad impedirgli il passo fuori d’Italia.

Fatto allora di necessità virtù, si determina ad abbracciare la vita eremitica : e va successivamente a nascondersi in diversi luoghi alpestri e solitarii a fine di non essere disturbato dal suo intimo conversare con Dio; ma neppur questo gli riesce secondo il suo desiderio. Imperocché la luce dei miracoli, la fama delle virtù e l’odore della santità di lui da ogni parte gli attirarono ammiratori, clienti e discepoli.

Tra tanti non fu l’ultimo Ottone che andasse a visitare Guglielmo, e lo trovò su quel monte Appennino della nostra provincia Irpina, il quale intorno a quel tempo mutò il nome di Virgilio in quello della Vergine, e quindi in poi si chiamò Montevergine. Su quel monte dovea sorgere il celebre santuario della gran Madre di Dio ed il monastero principale della Congregazione Virginiana fondata dal santo Vercellese: ma tali superbi edifizii non esistevano ancora colà quando Guglielmo ed Ottone vi s ‘incontrarono.

Ben volentieri direi le circostanze di quell’incontro se mi fossero note; ma probabilmente nessuno ne fu testimone, eccetto Dio e gli Angeli del Signore. E questi soli sarebbero in grado di dirci dove precisamente e quando e come i due Santi s’incontrarono, di quanta luce sfavillarono quegli occhi e quelle menti, di quanta letizia furono inondati quei cuori, di quanto ardore si accesero quelle anime, e di quanta edificazione scambievole furono piene le loro persone.

Dopo un certo tempo, di cui ci è ignota la durata, riprese Ottone il cammino verso Ariano; ove poi giunto e dimorandovi, chi sa quante volte rivolse gli occhi a Montevergine ed il cuore al santo suo amico.

IX. ESERCIZIO DI BENEFICENZA IN ARIANO

In Ariano dovea aver termine il pellegrinaggio di Ottone: ed egli vi giunse una decina di anni prima di morire, quindi più che settuagenario. Fermò quivi la sua residenza, perché gli piacque questo luogo, destinato a divenire il più fortunato teatro delle sue virtù, il venerabile sepolcro del suo corpo, la sorgente inesauribile di grazie e di favori per sempre.

Quivi fu più splendida e completa la manifestazione del terzo aspetto di Ottone; che noi abbiamo già ammirato come soldato e pellegrino, ed ora ammireremo come benefattore dell’umanità sofferente.

Veramente non fece mai in lui difetto la beneficenza, che anzi a somiglianza di Giobbe egli poteva dire: Dall’infanzia meco crebbe la misericordia, e meco uscì dal sen di mia madre. Benefico in fatti ei fu bambino con le elemosine da lui distribuite ai poverelli; benefico giovine sotto le armi, che egli volgeva alla difesa del diritto e della giustizia, al bene della patria e della Chiesa; benefico nel corso del lungo suo pellegrinaggio, perché da per tutto era passato edificando con la virtù e sollevando co’ suoi servigi. Ma nell’ultimo stadio di sua vita ed in mezzo al popolo, di cui dovea esser modello protettore e padre, apparisce nel più caro e bello aspetto, in quello di uomo caritatevole e benefico; e ciò non senza un alto disegno della Provvidenza, che con sì perfetto suggello voleva indelebilmente imprimere negli Arianesi la forma divina della beneficenza.

Gioverebbe non poco se la beneficenza di Ottone si potesse esattamente disegnare e con vivi colori dipingere; ma per riuscirvi farebbe d’uopo l’assistenza di quegli Arianesi, che nel secolo XII ebbero la fortuna di vederlo, di conversare con lui, e di ammirare le sue opere d’industriosa e magnanima carità in favore dei poveri di Gesù Cristo. A me piacerebbe udire da loro il racconto dell’impressione che fece nel popolo l’arrivo ma- spettato di quel vecchio forestiere; che vestito di una tunica bianca stretta alla vita da una cintura di cuoio, e coverto d’un ruvido mantello nero, umile e modesto si avanzava; e pur ispirava riverenza non tanto per la canuta barba quanto per la grande virtù che traspariva dalla gravità del portamento, dalla soavità dei modi e dalla dolcezza delle parole. E quanto sarei grato a chi m’indicasse il sito e la forma dell’ospizio da Ottone aperto in Ariano per accogliervi i pellegrini, a chi mi mostrasse un mobile un utensile di cui egli si serviva nell’esercizio della beneficenza!

Non è difficile immaginare di quanta edificazione riuscir dovesse per gli Arianesi l’esempio della carità di Ottone. Il quale al comparire d’un povero pellegrino, sollecito correvagli incontro per menarselo a casa; ove si metteva a lavargli i piedi, porgergli il ristoro di cibo e di bevanda, preparargli il letto pel riposo, e con rispetto, amore e tenerezza prodigargli ogni sorta di servigi, perché dalla fede illuminato in quel povero vedeva il suo Signore Gesù. Quantunque ignota fosse agli Arianesi la condizione di quel forestiere,che a nessuno erasi manifestato per un patrizio romano, pure si accorgevano che egli non era un uomo del volgo; e perciò ogni di più cresceva la loro meraviglia nel vederlo sì tenero verso degli altri e sì duro verso se stesso; nel vederlo impiegare le sue mani nell’umile mestiero di ciabattino,sottoporre le spalle al peso del fardello di legne che porta dal bosco e del vaso d’acqua che reca dal fonte; nel vederlo alla fine della laboriosa giornata dare una brev’ora di riposo all’affaticato e logoro suo corpo sulla nuda terra.Tanto può la grazia di Dio corroborare la fiacca natura dell’uomo! Tanto diversa dalla filantropia è la carità cristiana!

Per tre anni vide Ariano questo spettacolo ammirabile di edificazione, e per tre anni assistè a questa chiara ed eloquente predicazione di carità e di beneficenza. Or chi può credere che tutto ciò riuscisse infruttuoso? Certo nessuno che non voglia fare gratuita ingiuria ad una città così cristiana; la quale non avrebbe potuto dirsi divota di Ottone, nè meritarne la protezione se non avesse stimate ed imitate le virtù di lui. Quindi è che io ritengo che molti Arianesi si diedero allora ad imitare la beneficenza di Ottone, che molti si unirono a lui per aiutarlo nel caritatevole ufficio, e che alcuni almeno ebbero caro prendere nell’ospizio dei pellegrini il posto del santo il dì chequesti si ritirò nel romitorio di S. Pietro.

X. VITA EREMITICA A S. PIETRO

Alle falde meridionali del monte su cui siede Ariano, ed alla distanza di tre quarti di miglio dalle mura della città era a tempo di Ottone ed è tuttavia un chiesa campestre dedicata al Principe degli Apostoli. A lato di essa si fece Ottone una piccola cella; e vi si chiuse a fine di prepararsi alla morte con aumento di austerità. Ivi prolungando le vigilie, diminuendo lo scarsissimo cibo e battendo il suo corpo con un flagello composto di sessanta strisce di cuoio, si esercita nella mortificazione della carne: ivi lo spirito purifica con abbondanti lagrime, orna col merito di frequenti atti di virtù, e corrobora con l’orazione e la contemplazione del giudizio di Dio e i della prossima morte, che di continuo gli ricorda la fossa a questo fine con sue mani scavatasi nella stessa cella: ivi malgrado tanta mortificazione ed orazione va muovergli guerra il nemico infernale, che visibilmente gli si presenta in aspetto orridamente brutto e minaccioso; ma egli lo mette in fuga col potente segno della croce.

Con l’acquisto di meriti senza numero, durò sei o sette anni questa non vita ma crudel agonia, nella quale ei si teneva fermo e costante per compiere la volontà del Padre celeste, e per imitare in quel modo che poteva la passione di Gesù Cristo. Giova però notare che questa penosa e lunghissima agonia era di tanto interrotta e compensata da ineffabili dolcezze di paradiso; le quali provenivano ora dalle vittorie sul Demonio, ora dalle celesti visioni e dalla promessa del premio eterno, ed ora dall’amore di Dio, nel quale tutta si liquifaceva l’anima sua.

Non conosce punto i Santi chi crede, che fra i tormenti di quell’agonia e fra le dolcezze di quell’estasi non sia più capace Ottone di far bene al suo prossimo; infatti è morto a tutto Ottone in quella romita cella, fuorché alla beneficenza. E se maravigliato alcuno domanda che cosa può colà dare ottone, quand’egli è privo di tutto, anche della forza per lavorare; io rispondo ch’egli può molto, perché ha un cuore capace di amare e volere il bene altrui; io rispondo ch’egli può tutto, perché quando i Santi non hanno più nulla sulla terra, il Signore apre loro i tesori del cielo. Quindi è che il Rinchiuso di S. Pietro non solo consola ed aiuta con gli esempi della santità, coi consigli della sapienza e con le fervide preghiere; ma soccorre altresì i bisognosi mercè l’Onnipotenza di Dio messa nelle mani di lui.

Per esempio, si presenta a lui un giovine cieco, ed ei gli dà la vista con un semplice segno di croce. Quantunque ostinata nella sua perfidia ricorre ad Ottone una donna Giudea, e gli domanda la vista del corpo, senza rimaner delusa nella sua speranza. Oppressa da febbre ribelle ad ogni rimedio un’altra donna raccomandasi alle preghiere del Santo Recluso; il quale prega ed essa è lasciata immediatamente libera dalla febbre.

Un falconiere di Giordano, conte di Ariano, con poco rispetto pel luogo sacro, se ne andò a caccia innanzi la Chiesa di S. Pietro; e per prendere uno sparviero, che sordo alla sua voce, nè correre voleva alla preda, nè fare a lui ritorno, ma posato se ne stava sulla cella di Ottone; ardì disturbare l’orazione del Santo, scalando con fracasso quel tetto. In punizione di tanta temerità la preghiera del Santo ottiene da Dio, che lo sparviero nell’istante d’esser preso apra le ali al volo e vada ad appiattarsi lontano. Dopo tre giorni di faticose e diligenti, ma inutili ricerche, temendo lo sdegno del Conte e pentito finalmente del suo fallo, si decide il falconiere ad implorare l’aiuto del Santo Romito; il quale gli dice: Va tosto al fonte di S. Pietro, l troverai l’uccello che si lava, ed appena ti avrà scorto verrà da se stesso a posarsi tranquillo sul tuo pugno. Andò con fiducia il falconiere; e come aveva detto Ottone così tutto avvenne. Tanto il castigo, quanto la grazia che contiene questo fatto miracoloso eran ordinati al bene di quell’uomo irreligioso e rozzo; poiché con i castighi mirano i Santi alla correzione dei colpevoli, non mai alla vendetta delle ingiurie fatte alla loro persona.

Il Conte Giordano confessò pubblicamente, aver anch’egli sperimentata la virtù dei prodigii in Ottone. Il quale per indurre quel prepotente a desistere da un reo proposito un dì gli disse: Se prometti di rinunziare al cattivo progetto che hai nell’animo, io ti rivelerò la causa occulta ditale tuo pensiero. Promise il Conte e con alta meraviglia si convinse della virtù che aveva Ottone di leggere i più secreti pensieri dell’anima altrui.

XI. MORTE

Poco prima della morte del suddetto conte Giordano, che avvenne nel 1127, passò dal tempo all’eternità l’anima santa di Ottone. La longevità di questo Santo, che malgrado la straordinaria sua mortificazione visse circa 85 anni, prova di due cose l’una; o che la mortificazione cristiana non è tanto nociva alla sanità ed alla vita dell’uomo quanto alcuni pretendono, o che Iddio, quanto lo crede espediente, con soprannaturale virtù la debolezza della natura corrobora di chi fida in Lui.

E’ per l’uomo virtuoso un guadagno la morte, la quale costituisce il ponte di passaggio dalla vita miserabile della terra alla vita gloriosa e beata del cielo; fu perciò giorno di festa per Ottone quello in cui l’anima sua benedetta si sciolse finalmente dai legami del corpo mortale ed andò a Dio. A una tal morte preziosa, avvenuta principalmente per effetto di ardente desiderio ed amore di Cristo noi daremo il nome di transito; perché fu il felice passaggio dall’esilio alla patria, dal dolore al gaudio, dal combattimento al trionfo, dalla terra al Cielo.

XII. CULTO

Vigeva ancora nel secolo dodicesimo l’antica forma di procedura nella beatificazione dei Santi, perciò ben tosto, anzi immediatamente dopo la morte, si cominciò a venerar Ottone con culto religioso nella Diocesi di Ariano.

Poiché a celebrare la gloria che egli meritato si aveva con le eroiche sue virtù, Cielo e terra si unirono in un magnifico accordo. Il Cielo con una catena di splendidi prodigii, che cominciati durante la vita del Santo non cessarono con la morte, ma si continuarono nel corso dei secoli; e la terra col concorso delle genti al sepolcro venerabile, con le laudi e le feste, con le suppliche fiduciose nella potente intercessione e finalmente coll’unanime acclamazione del popolo Arianese, che scelse Ottone per suo patrono principale.

In fatti appena sparsa la notizia della morte del santo e benefico Recluso tutta la città si commuove, i testimoni delle sue virtù con ammirazione ne encomiano la vita, i beneficati con riconoscenza raccontano le grazie ed i favori da lui ricevuti, tutti con lagrime miste di dolore e di gaudio rimpiangono la perdita da loro fatta sulla terra e si rallegrano della gloria da lui acquistata in cielo. Ed ecco popolo e clero correre al romitorio di S. Pietro, accalcarsi dentro e d’intorno la cella per mirare il corpo del loro generoso benefattore, del loro amato padre. Poi lo cavano da quella specie di tomba, in cui vivente era stato come sepolto per tanti anni; lo posano su di un carro ornato ed in processione trionfale lo menano in città alla chiesa cattedrale; ove il vescovo lo riceve e colloca in un posto di onore.

Abbiamo ancora un antico uffizio che si recitava nelle feste di questo Santo: uffizio composto nello stesso secolo duodecimo o al più tardi nei primi anni del tredicesimo prima che il sacro corpo fosse portato a Benevento.

Come e quando poi il culto reso al nostro Beato uscì fuori della Diocesi Arianese e si estese fino a Roma, non sapremmo dirlo. Ma da Eriberto Rosweido, erudito ed esatto raccoglitore degli Atti sinceri dei Santi e molto stimato dai Bollandisti, sappiamo che a tempo suo aveva S. Ottone un altare ed una immagine a Roma nella Chiesa dei Santi Martino e Silvestro ai Monti. Anche il Vitale, nelle Memorie degli Uomini Illustri di Ariano, attesta il culto reso ad Ottone in Roma, nella cappella gentilizia, che i Frangipane hanno nella Chiesa di S. Marcello. Finalmente dalle Memorie di S. Ottone, stampate a Roma nel secolo passato, rileviamo che questo Santo è venerato e festeggiato a Castelbottaccio, nella Diocesi di Larino, che a Napoli trovavansi allora delle sue antiche immagini, e che dalla Confraternita di S. Filippo Neri di Bologna era annovverato tra i Santi protettori di ogni mese.

XIII. TRASLAZIONE DELLE RELIQUIE

Circa l’anno 1220 i Saraceni di Federico I! devastavano la Puglia, ed empiamente profanavano quanto di più sacro aveva la Religione. La vicinanza del pericolo suscitò una tempesta di contrarii affetti in cuore agli Arianesi a causa delle preziose Reliquie del venerato e amato loro Patrono. Poiché ritenerle in Ariano esposte al non lontano pericolo di profanazione sembrava loro grandissima imprudenza mandarle altrove per metterle in salvo era come uno strapparsi il cuori dal petto. Deliberarono a lungo, ed infine il partito della prudenza prevalendo si decisero, a malincuore però, di trasportarle a Benevento, per metterle in salvo dentro la cerchia di quelle fortissime mure.

Ma la fiducia posta né Beneventani costò agli Arianesi ben cara; perché passò il pericolo, si successero generazioni, ed essi non potevano ricuperare il sacro deposito, per due lunghi secoli reclamato in vano. L’amore e l’odio altrui per le cose sacre riusciva loro egualmente fatale; ed essi per evitare Scilla erano andati incontro a Cariddi.

Finalmente nel 1452 Alfonso I re di Napoli prendendo a petto la causa degli Arianesi, che ardentemente desideravano la restituzione del prezioso loro tesoro, con pressante lettera prega il Cardinal Cerdano di volere e col Papa Niccolò V, e coll’Arcivescovo di Benevento Giacomo della Ratta, efficacemente trattare della restituzione del Corpo del B. Ottone alla chiesa di Ariano, come cosa reclamata e dalla giustizia e dalla pietà. Non mancò il Cardinale di compiere premurosamente l’incarico; ed ebbe il piacere di vedere la sua mediazione coronata da felice successo.

Dopo circa 230 anni le Sacre Reliquie di S. Ottone faveano ritorno in Ariano; ed immaginare si può quantunque non detto dalla storia, con- quanta festa andasse ad incontrarle il popolo, a riceverle e a riportarle alla Cattedrale. Silenzio più dispiacevole e di maggior danno è quello che la storia intorno al luogo dove la maggior parte delle ricuperate Reliquie fu posta. Quindi abbiamo la mortificazione e la pena d’ignorare dov’è che esse ora sono nascoste.

Da due secoli almeno nel tesoro della cattedrale non si vede delle Reliquie di S.Ottone che un braccio, chiuso in un reliquiario di argento. E le altre? Non può dirsi che siano rimaste a Benevento; sia perché il Ciacconio in modo assoluto scrive, che il Cardinal Cerdano riusci nell’impresa; sia perché il Capozzi dice nella sua Cronaca di Ariano che l’intero corpo del santo fu trasferito da Benevento e collocato in una magnifica cappella ha chiesa Cattedrale; sia finalmente perché nel catalogo sinodale delle reliquie possedute dalla chiesa di Benevento,fatto dal Cardinal Orsini, non sono punto annoverate quelle di S. Ottone.

A Castelbottaccio in provincia di Molise e diocesi di Larino si celebra la festa di S.Ottone e si pretende che il corpo di lui stia sepolto e nascosto nella loro chiesa matrice. Ma questa asserzione non ha altro fondamento che una vaga tradizione popolare; con tre versioni diverse. La prima dice che il corpo di S. Ottone trovasi a Castelbottaccio, colà trafugato, senza che si sappia nè come né quando, e senza che in Ariano rimanesse traccia di questo furto; e questo è inverosimile. La seconda pretende che S. Ottone non morì ad Ariano, ma a Castelbottaccio, ove fuggendo da Ariano si era ricoverato. La terza crede che S. Ottone morì a Castelbottaccio, ove recato si era nel 1178 per assistere alla consacrazione di quella Chiesa. Ma queste due ultime versioni contraddicono a ciò che la storia afferma intorno al tempo ed al luogo della morte del Santo; e quindi non si possono ammettere.

A Castelbottaccio da due secoli almeno si venera il dito anulare di S.Ottone, ma senza autentica. Di questo Santo, che hanno scelto anch’essi per Protettore, fanno ogni anno due feste. Una minore il 15 Aprile in memoria di un miracolo non specificato; ed una maggiore solennissima il 31 luglio. E quando nell’occasione di questa seconda festività a Castelbottaccio si trova un Arianese, in testimonianza di affetto fra le due popolazioni devote di S. Ottone, gli si fa il donativo di Carlini sei (L. 2,55) e l’onore di portare alla solenne processione la croce di argento. Se poi sono due, al secondo si fa lo stesso donativo, e l’onore di portare lo stendardo o pure la statua del Santo Patrono.

Più probabile a me sembra che le Sacre Reliquie di S. Ottone debbano stare là dove il Capozzi dice che furono riposte, quando furono traslate da Benevento; cioé in quella cappella della Cattedrale che è dedicata al Santo Patrono.Per timore appunto di qualche rapimento pensarono occultarle,. mettendole sotto terra e più convenientemente sotto l’altare.

XIV. MIRACOLI

Della gran moltitudine di miracoli e grazie ottenuti da quelli che in tutti i tempi ricorsero a S. Ottone pochi in verità sono specificatamente noti. Sappiamo però che molti al suo sepolcro ottennero la guarigione da infermità e malattie d’ogni sorte, che molti furono da lui liberati dalle infestazioni diaboliche. Sappiamo che nel 1528 allontanò dalla città la pestilenza, che nel 1590 la preservò dall’incendio, che s’era appiccato nella sacristia della Cattedrale, che nel 1648 tenne lungi da essa i terribili mali dei rivolgimenti politici e della guerra civile.

Essendo una fiata la città assediata dai Saraceni, comparve S. Ottone in mezzo ad una oscura nuvola gravida di tempesta, e mostrandosi minaccioso agli assedianti li atterri e con una grandine di pietre li mise in fuga. Anche oggi in Ariano si mostrano delle pietre, che una pia tradizione ritiene esser cadute allora dal cielo per la liberazione della città.

Fra le persone miracolosamente guarite da S. Ottone si annovera S. Elziario, conte e poi patrono anch’esso di Ariano. In tempo di epidemia era esso gravemente malato ed in pericolo di vita, quando il pio Ermengardo, suo genitore, fiduciosamente si rivolse a S. Ottone, e ne ottenne la guarigione del diletto suo figliuolo. In attestato poi della grazia ottenuta e della cordiale sua riconoscenza, fece il Conte splendidi donativi, cioé molti beni alla cattedrale per aumentare il numero dei ministri del culto del Santo

Patrono, ed il castello di S. Eleuterio alla sede episcopale. Questo fatto è narrato dal Barberio, come pure i due seguenti.

Nel 1558 venne dalla S. Sede spedito in Ariano qual Vicario Apostolico Pietro De Perris; il quale dubitando della legittimità del culto dato a S. Ottone ne fece togliere la statua dalla pubblica venerazione. Quando ecco la notte seguente è repentinamente preso da veementissima ambascia, che fieramente lo agita, e gli sembra di essere da gravi colpi di pesanti bastoni percosso Pensando allora, e non senza ragione, che ciò fosse un castigo della colpa commessa contro il culto di S. Ottone, manda tosto persone a rimettere a suo posto la statua veneranda, ed immantinente si sente libero da ogni affanno e da ogni dolore.

Simile cosa avvenne quindici anni dopo, cioé nel 1573, a Pietro Antonio Vicedomini, anch’esso Visitatore Apostolico in Ariano. Ignorando o non credendo ciò ch’era occorso al De Petris, fa per lo stesso motivo rimuovere dalla nicchia la statua del Santo, e ne riceve immediato e grave castigo. E’ un languore profondo che ribelle ad ogni rimedio, va ogni di più crescendo fino a fare del tutto disperare della guarigione. E pure completamente guarisce appena che viene da lui rivocato l’ordine dato,. con l’ingiunzione di rimettere al suo posto la statua del santo Patrono.

CONCLUSIONE

Non a pascere una vana curiosità, o a dare uno sterile piacere son destinate le vite dei Santi; ma per edificare le anime cristiane, eccitando in loro vera divozione; la quale principalmente consta di fiducia nella protezione dei Santi amici di Dio, d’imitazione delle loro splendide virtù, di onoranza ch’essi meritano e che i fedeli loro debbono.

Perciò prima di deporre questo piccolo libro, destinato ad accrescere e a perfezionare quella divozione che per S. Ottone da sette secoli nutrono in cuore gli Arianesi, ogni lettore in se stesso raccolto vada meditando quanta fiducia deve porre in questo Santo, come deve seguire con l’imitazione le tracce luminose delle virtù di Lui, e quale servigio ed onore deve tributargli.

Grande ed illimitata vuol essere la nostra fiducia in un Santo che Dio stesso ha scelto e destinato nostro avvocato, protettore e dispensatore delle sue grazie: in un Santo che sia vivente ancor sulla terra, sia regnante con Cristo in cielo ha con amore e zelo in nostro favore esercitato tal ufficio per sette secoli. Il passato ci è garante dell’avvenire. A Lui dunque con piena fiducia faremo ricorso per ottenere di essere liberati dalle tentazioni,dai pericoli,dalle miserie della vita e di essere forniti dei beni dell’anima e del corpo,tutto disponendo Egli ed ordinando al conseguimento dell’ultimo nostro fine, cioè della eterna beatitudine nella patria celeste.

Non meno grande ed esatta conviene che sia nei figli l’imitazione di un Padre sì perfetto; il quale con l’Apostolo Paolo, ci dice: Siate miei imitatori com’io di Cristo, combattendo per la giustizia, vivendo vita soprannaturale con aspirazione incessante al cielo, e beneficando tutti.

Valoroso campione della giustizia ci mostra il glorioso vessillo dell’invincibile costanza nel bene, intorno a cui si arruolano gli uomini di carattere e di onore; e c’impone di separarci dalla turba abietta dei vili; i quali dal razionalismo,dall’ateismo politico e dal liberalismo privati di carattere, di religioneie e di coscienza; legati da brutali passioni, da rispetto umano e da tirannia settaria; inetti a conoscere la verità, a praticare la virtù, a compiere il loro dovere; vigliaccamente prepotenti pel numero, a guisa gonfio e torbido torrente vanno precipitando prima nella barbarie e poi nella eterna perdizione.

Quest’ammirabile Pellegrino ci fa cenno di volgere con indignazione le spalle al pantano pestilenziale della corruzione, ove il naturalismo, il sensismo ed il materialismo hanno gettato scienze e lettere, arti e mestieri, scuole costumi del mondo moderno, ed ove i discendenti delle bestie, con gusti e tendenze bestiali, beatamente s’immergono: e c’invita a seguirlo su pel monte della virtù cristiana, a fine di respirarvi liberamente l’aria soprannaturale della grazia, e mirare più vicino il cielo, la vera patria dei credenti.

Prostrato a piedi dei poveri e servendoli con le sue mani, c‘insegna compiuti in onore del Santo Patrono nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. In fatti nel Sec. XVI il Vescovo Niccolò Ippoliti collocava la statua del Santo in una delle nicchie della facciata della cattedrale. Il magistrato questo grande Benefattore quale beneficenza dobbiamo noi stimare, amare praticare. Non quella legale certamente, che con mezzi empii, iniqui, opprimenti toglie cento per dar uno ai poveri dopo un secolo di aspettazione e di struggimento: non quella settaria, che del soccorso temporale si serve per dannare eternamente l’anima: non quella mondana, che prende il nome di filantropia; la quale corre allegramente a divertirsi in un teatro a danzare in una festa da ballo con la scusa di apprestar ajuto ai miseri danneggiati da inondazioni, incendi, tremuoti e colera. No, non è questa beneficenza senza Dio, anzi nemica di Dio, che Egli c’insegna; ma quella che da Dio è comandata, che a Dio si riferisce, anzi a Dio stesso si fa nella persona dei poverelli. Questa con nome sacro chiamasi carità, ed è cosa tutta santa nel principio, nel fine e nei mezzi: essa nobiltà tanto chi la fa quanto chi degnamente la riceve, perché l’una e l’altro rappresentante di Dio: essa sola congiunge i cuori con la catena indissolubile dell’amore, dei benefici e della graditudine.

Ughelli loda lo zelo e la pietà degli antichi Arianesi nel rendere il dovuto onore alloro illustre Patrono; e l’Autore delle Memorie di S. Ottone che scriveva nel 1780, rende testimonianza, che fino a quel tempo tale zelo e pietà non era venuto mai meno; e nota alcuni atti della pietà Arianese, della città in tempo di penitenza prometteva dodici ducati annui; e cento venti anni dopo. nel 1648. aumentava il dono mutandolo in un ampio podere assegnato in dote alla cappella di S. Ottone.

L’anno 1579 il Vescovo Donato de Laurentiis otteneva da Gregorio XIII per l’altare del Santo Patrono l’indulgenza plenaria quotidiana in suffragio delle Anime purganti: in seguito di che i fedeli fecero legati per tremila Messe annue da celebrarsi a questo Altare privilegiato. Il secolo seguente vide per cura del Vescovo Ottavio Ridolfi onorarsi di pitture la cappella, ricco di marmi l’altare, e l’effigie di S. Ottone scolpita da egregia mano in finissimo marmo. Innanzi a questa faceva bella figura una magnifica lampada di argento, che il patrizio arianese Scipione Sebastiani, per gratidudine di scampato pericolo ad intercessione del Santo, vi sospese, con incarico agli eredi di tenerla sempre accesa, e col dono di dieci ducati annui.

Da quanto tempo la lampada, le pitture, i legati delle tremila messe più non esistono, io non so: ma so che stringe il cuore l’aspetto bujo, disadorno e freddo di quella venerabile cappella! Or se non siamo figli degeneri dei nostri maggiori, e se ancor vive in noi l’antica pietà e zelo per l’onore del nostro glorioso Patrono, conviene darne la prova col ristabilire il decoro e lo splendore della cappella a Lui dedicata. E per ciò ottenere un mezzo facilissimo sarebbe quello di spendere a questo nobilissimo scopo quel danaro, che molti sciupano in baldorie sotto pretesto di onorare il Santo. Non tutti capiranno questa parola, ma quelli ai quali è concesso dall’indole dell’animo più docile e più gentile, dall’educazione a civiltà e buon gusto, e specialmente dalla fede e grazia di Dio.

In onore di S. Ottone si celebrano in Ariano tre feste nel corso dell’anno. La prima il 23 Marzo, giorno di sua morte beata: un’altra più solenne la 2 ° Domenica dopo Pasqua; preceduta da Novena, in un giorno della quale si va in processione al romitorio di S. Pietro, ove il Santo da eremita passò gli ultimi anni di vita mortale: la terza finalmente fra l’Ottava dell’Assunta. Nel modo di celebrare queste feste chiaramente si distinguono i veri dai falsi devoti di S. Ottone; questi celebrandole in modo pagano, quelli in modo cristiano.Cristiana è la festa quando si ha raccoglimento di sensi, purificazione di coscienza, elevazione del cuore, santificazione dell’anima tutta quanta, mediante la predicazione della parola di Dio, la meditazione e la preghiera, la confessione e la comunione, la gala stessa e lo sfoggio ben ordinato di lumi, di fiori e di musica.

Paganizzano poi il culto cristiano coloro, che in occasione delle feste dei Santi Patroni, vanno in cerca di ciò che distrae l’animo, sodisfa i sensi ed eccita le passioni; e quindi non è meraviglia se questi falsi divoti la loro festa pagana finiscono nella dissoluzione, nello stravizzo, e nelle risse.

Or l’efficace protezione dei Santi non se la possono ragionevolmente aspettare i falsi divoti ma i veri; perciò a me piace finire con le belle parole del Manzoni, che al nostro caso fanno molto a proposito:

Lungi il grido e la tempesta                                             

 Dei tripudii inverecondi,

L’allegrezza non è questa

Di che i giusti son giocondi;

Ma pacata come segno,

Ma celeste come pegno

Della gioia che verrà.

da FRAMMENTI raccolti da Lello Guardabascio -Politografica Ruggiero - luglio 1982

 

 

 

La grandine di pietre caduta dal cielo sopra i saraceni per intercessione di S. Ottone mentre assediavano Ariano

LE PIETRE DI S. OTO

di Vittorio D’Antuono

Poco è giunto fino a noi delle notizie riguardanti S. Ottone; le opinioni a riguardo sembrano essere alimentate più dalla fervida immaginazione dei fedeli e da un antico risovvenire popolare che da una rigorosa indagine storica.

E qui che storia e credenza popolare si fondono mirabilmente in un legame che a noi non spetta disgregare né tantomeno conoscere fino in fondo.

Nel viaggio verso la non dimenticanza, le voci remote, sopraffatte dall’ irriverente corso degli anni, percorrono la loro ascesa dai luoghi trascorsi dell’oblio; gonfiano i loro corni, ricomparendo in una muta processione alimentata da reminiscenze lustrali. Le nebbie dei tempi si diradano tanto da permetterci di scorgere, tra il pigro retrocedere delle brume, squarci di un paesaggio antico: gli anfratti delle vecchie mura, il castello, risvegliatosi dal suo sonno eterno, i vicoli, le viuzze fangose.

Un manipolo di saraceni in armi minaccia la distensione del luogo ed Ottone compare dall’alto delle mura compiendo il miracolo: il sole, mutilato dei suoi raggi scarlatti scompare dietro una spessa coltre di nubi.

Greve cade sui pagani aggressori una grande quantità di pietre nerastre, che, in lento inesorabile incalzare. spinge via i superstiti in cerca di riparo, giù per i frondosi valloni.

A tal proposito, nel 1596, Giovan Battista Capozzi, così ebbe a scrivere: “Si degno’ Iddio oprar molti miracoli per li meriti di questo Santo, e specialmente proteggendo la Città d’Ariano nelle sue necessità, particolarmente allor che li Saraceni venuti dalla Puglia chiamati dall’ Imperadore Federico assalendo la Città d’Ariano con numeroso esercito, il Popolo correndo dal Santo, a ciò pregasse Iddio, che li liberasse dalle mani di quei barbari.

Egli postosi in orazione nel suo Tugurio, incontenente s’oscurò il Cielo, e incominciò a piovere sopra quei barbari una gran tempesta di grossi sassi di varie forme, e di grave peso differenti di materia da altri naturali sassi, da questi vedendosi oppressi quei barbari, lasciarono l’assedio, e con precipitosa fuga si partirono.

Queste pietre si conservano sino al presente in detta Città d’Ariano, molte delle quali si vedono fabricate nelle mura delle Case al di fuori, e a vista publica, e molte altre dentro le abitazioni, per segno, e memoria del meracolo”.

Oggi, infatti, quando il sollecito viandante si avvia nell’intrico dei vicoli, scorge, tra il marciume delle calcinature e tra generazioni sovrapposte di edere intricate, gruppi di ciottoli nerastri volgere la loro accorata preghiera ad un cielo perlaceo di un nitore quasi evanescente.

In apparenza statici e silenziosi essi però sono non del tutto muti; all’ascoltatore attento e all’osservatore paziente sanno raccontare una vicenda antica che rivive nei coloriti racconti dei vecchi e nelle reminiscenze dei pochi, memori di una storia che valica i limiti temporali dell’uomo e che perdura con esso nella sua tradizione secolare e nella semplicità del suo vivere giornaliero.

Circa quattro secoli dopo il miracolo, nel XVII secolo, il vescovo Caiazza, avendo ricevuto da Fabio Barberio l’opera “De miraculosa lapidum pluvia instar grandinum adversus Saraceno?’ a lui dedicata come ci riferisce Tommaso Vitale, rese merito al Santo, celebrandone il prodigio con una lapide marmorea; imprigionata nella staticità della pietra, nella cappella di S. Ottone alla Cattedrale, la pristina epigrafe così recitava:

LAPIDAE CRANDINES

AB AERE DELAPSAE ADVERSUS SARACENOS

SANCTI OTHONI PRECIHUS

DUM ARIANO OBSEDERANT

Rifatta, ancora oggi eleva al cielo la sua prece e la si trova incastonata nelle mura perimetrali della Chiesetta del Crocifisso, insieme ad altre lapidi ed alle pietre di S. Oto.

Le suddette pietre, definite anche pietre panopee, ovoidali per forma ed irregolari per dimensioni, nell’immaginario collettivo sono la prova tangibile di un Santo non più “prutittore di li frastieri”, ma pastore e guida dei suoi fedeli.

In tempi più recenti, precisamente durante il terremoto del 1980, fra il polverone della terra sconvolta dal moto orrendo, qualcuno sostenne di aver visto il Santo Eremita sorreggere il campanile della Cattedrale per tutta la durata del movimento sismico. La torre campanaria, deturpata dalla macabra danza, rovinò al suolo soltanto dopo la fine del sisma...

E pensare che a Castelbottaccio, comune in provincia di Campobasso, in cui al pari della nostra città si venera S. Oto, si racconta che il nostro protettore, abbandonato il Tricolle, perché disgustato del comportamento degli Arianesi, e rifugiatosi nel suddetto paese, scaricò sugli stessi Arianesi che lo inseguivano per riportarlo indietro, un’abbondante quantità di pietre, costringendoli ad una precipitosa fuga.

Al di là dei numerosissimi aneddoti, ciò che risulta essere realmente importante è il profondo legame interiore che unisce noi Arianesi non solo alla nostra città ma anche ad un protettore sempre più sentito; legame alimentato da ricordi sovrapposti di generazioni differenti e temprato alla viva fiamma della fede popolare.

La storia non necessita di belle parole; essa rivive nei vicoli, nelle stradine, nelle piazze, nel vociare del volgo. dove il tutto si amalgama meravigliosamente nell’inchiostro di un libro ancora da scrivere.

Del resto, come sosteneva lo storico francese Patrice de la Tour du Pin:

“i paesi senza più leggenda saranno destinati a morire di freddo”.

“GUIDA TURISTICA DI ARIANO CITTA’ CAPITALE” a cura di Mario e Ottaviano D’Antuono Tipografia IMPARA - giugno 2001-


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SAN LIBERATORE

Per antica e costante tradizione, sappiamo che S. Liberatore fu il primo Vescovo di Ariano, e questa tradizione è confermata da non pochi e dotti storici e anche dalla serie cronologica dei Vescovi di Ariano pubblicata da Monsignor Vescovo Lojacono, nel Sinodo Diocesano.

Se non è stato Vescovo residenziale, fu certamente uno dei regionali, quali si ebbero nei primi secoli della Chiesa, giusta un manoscritto, che è nella Biblioteca Vaticana.

Il culto di questo miracoloso Santo, nell’attuale Santuario, ove pose la sede di grazie e prodigi, rimonda a tempi immemorabili.

La chiesa, a lui dedicata, possedeva una larga zona di terreno, ma è stata usurpata; godeva alcune rendite, le quali, nel 1451, passarono alla sacrestia della Cattedrale e poi sono andate perdute.

Nel 1670, il Capitolo fece eseguire alcuni restauri.

L’arcidiacono Cela eresse a S. Liberatore, nella nostra cattedrale, un magnifico altare di marmo con nicchia e balaustra.

Il Vescovo D’Agostino gli consacrò un piccolo monumento insieme agli altri Patroni: S. Ottone, S. Elziario e S. Delfina, in lastra marmorea e cornice di metallo bronzato, rimpetto al cancello d’ingresso della Cattedrale.

Inoltre S. Liberatore è venerato a Benevento, che ne fa uffizio e messa, a Magliano Sabino, ove è protettore principale, a Sulmona, a Rieti, nel castello di Buccianico, ove era un convento a lui dedicato; nel Viterbese e forse pure altrove.

Questo culto è ora vivo nella Sicilia ed, in modo particolare a Messina, Gualtiere, Sicaminò e Lume; nella provincia di Perugia e nell’America.

Il Santuario sacro a questo miracoloso Santo è sito alle falde di Ariano, a 3 km. di distanza dalla città, sopra una piccola, amena ed incantevole collina, circondata da case coloniche, da frutteti, oliveti e da boschi rivestiti di rigoglioso verde.

Questo luogo è caro agli. Arianesi, perchè fu il teatro delle gesta dell’illustre Martire.

È uno spettacolo commovente vedere, nel giorno a lui sacro, processioni interminabili di fedeli, molti scalzi, grondanti sudore pel lungo camminò, pieni di polvere; e vanno carponi per terra, su quel suolo benedetto, bagnato dal sangue dell’eroe invitto, piangendo. gridando per implorare grazie, o per sciogliere il voto di favori ricevuti.

E queste folle di pellegrini, isolati o a gruppi, non vengono solamente d’Ariano, ma da paesi lontani e vicini: Bonito, Melito, Montecalvo, Apice, Grottaminarda, Mirabella, Greci, Savignano, Castelfranco.

Il culto di S. Liberatore, di anno in anno, assume maggiore incremento, tanto che nei giorni di festa, il Santuario, sebbene due volte ampliato, è sempre incapace di contenere i fedeli. Durante il mese di maggio non mancano, quasi ogni giorno, pellegrinaggi riboccanti di fede viva, di pietà sincera.

“GUIDA TURISTICA DI ARIANO CITTA’ CAPITALE” a cura di Mario e Ottaviano D’Antuono  - Tipografia IMPARA - giugno 2001 -


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Dalla Corona di Cristo ALLE SACRE SPINE DI ARIANO                                                                  

di Nicola d’Antuono

A cura Pro Loco Ariano E.P.T. Avellino tip. Lucarelli 1970

Il tempo, i luoghi, la scarsità di notizie storiche, la mancanza di archivi altamente specializzati, inducono chi si accinge per amore delle antiche e sacre cose, a meditare sullo che l’uomo dà e ha dato attraverso i secoli a tante reliquie che sono gli avanzi della prisca gloria, frutto di avvenimenti celebri che la storia annota e tramanda nel tempo, perchè le generazioni future, continuatrici del processo storico,essendo le uniche depositarie di si cari ricordi, ne traggano, alla luce della fede e della ragione, i più alti insegnamenti.

Le sole cose che ci restano sono gli scritti di quei pionieri delle cose antiche che, più fortunati di noi, rifacendosi ai pochi cronisti del tempo, pur non essendo talvolta i diretti testimoni oculari di quei lontani avvenimenti, seppero cogliere i fatti più salienti e conservare nelle loro pregiate opere, sicure e inoppugnabili notizie di ineccepibile valore storico, che sebbene talune volte anacronistiche, ci pervengono come racchiuse in un aureo scrigno, pronte a sfidare l’aspra critica del più crudo ed inesorabile razionalismo.

S. Paolino, Tertulliano, S. Agostino, e, per arrivare ai tempi più prossimi a noi, gli studiosi di storia sacra : il Moroni, il Grutzer, Tommaso Bartolin, il Baillet., il Calmet, il Russel, l’Hasselquist e così via, non hanno valore assoluto e determinante in quanto mancano le fonti originarie di ricerca, per la qual cosa chi si accinge a frugare nelle antiche donazioni regie, non può non pensare, ad ogni infruttuosa ricerca, ai plurimi fattori contingenti, ai saccheggi, agli incendi e alla vastità degli eventi storici, che si perdono nell’oscurità dei tempi e dei luoghi, ove l’elemento storico si fonde con la tradizione e si perde nella leggenda.

Il nostro, vuol essere, dunque, solo un lavoro di cronaca e di attenta ricerca con l’intento precipuo di coordinare notizie, fatti e avvenimenti, tratti da scrittori antichi, la cui testimonianza non ci porta solo a fissare tappe salienti nella apoditticità del “ vero storico” ma altresì ci induce ad una analisi più vasta e comparata e ad una raccolta più sistematica che, partendo dalle vicende storiche generali, includa quelle particolari delle Sacre Spine che si conservano nel duomo di Ariano. Alla morte di Gesù di Nazaret «essendo già sopraggiunta la sera, siccome era La Parasceve. cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea» (S. Mar. 15 - 20) si recò da Pilato per chiedergli il corpo di Gesù.

« Egli comprato un lenzuolo e deposto il corpo, lo avvolse nel lenzuolo e lo mise in un sepolcro che era stato scavato nella roccia, poi rotolò all’entrata del sepolcro una pietra» (S. Mar. 15-20)

Nessun evangelista parla dettagliatamente degli strumenti della passione, dopo la morte, ma essi dovettero essere tolti e conservati con sacra venerazione dagli amici di Gesù, come pure dalle pie donne che lo avevano seguito dalla Galilea.

Gregorio di Tours, vissuto nel 500 e il Beda nel 600 ci hanno tramandato la immensa devozione delle Sacre reliquie di Cristo e lo stesso Tertulliano ci tramanda che i soldati, per riverenza alla incoronazione di Cristo, ricusassero di portare sul capo ghirlande di fiori e che lo stesso Goffredo di Buglione, incoronato re di Gerusalemme, rifiutasse di portare la corona imperiale, o come vuole il Moroni, portasse sul capo una corona di paglia lucente e, come altri dicono, addirittura di spine.

Già nel 326 dell’era cristiana l’Imperatrice Elena (santa) di ritorno dai pellegrinaggi in Terrasanta portò seco insigni reliquie: una parte della croce e il titolo - (partem Crucis, titulum et alias Reliquicis - Baronio) e, si dice che regalasse alla Basilica di -Santa Croce due spine della Corona di Cristo e che, come l’Alapide asserisce, le abbia viste personalmente

- Vidi a Roma due Spine della Corona di Cristo, che S. Elena trasferì da Gerusalemme a Roma nella Basilica di Santa Croce –(Vidi duas huius Christi Coronae Spinas Romae, quas S.Helena ex Jerusalem Romam in Basilieam S. Crucis trastulit).

Il primo a parlare della corona di spine fu S. Paolino nel 409- Epistola ad Macarium, XLIX, 14 - Aimone parla del viaggio che Germano (santo) fece in Terrasanta nel 561 e si dice che recatosi in visita da Giustiniano Imperatore, questi volle fare omaggio al venerabile vescovo di aurei doni, ma il buon prelato volle che 1’ imperatore lo facesse ricco di sacre reliquie. Si sa che ricevette dall’ imperatore. oltre ad insigni reliquie di martiri, anche due spine della corona di Cristo, che furono deposte nella Cappella di San Vincent de Paris.

Cassiodoro, nel Commentario del Salmo 86, afferma che la Corona trovavasi a Gerusalemme, e Bernardo, il monaco, nell’870, scriveva che la corona trovavasi nella Basilica di Sion.

Il Merra in Monografie Andriesi (BO 1906) così scrive -

Nel primo volume della Cronaca del Monastero di Abingdon, a pag. 88, vi è il capitolo intitolato: « Dei doni, che Ugo Capeto, re di Francia, mandò ad Adelstano, re d’ Inghilterra – Egli continua - « In questo capitolo, si narra come, verso il 987,Adelstano, re degli Inglesi, avendo in tempo di Pasqua tenuto un generale parlamento presso Abbendonia con i suoi conti e baroni, fu visitato da alcuni ambasciatori del re di Francia Ugo, soprannominato Capeto, i quali gli offrirono oltre abbondanti doni di oro e argento, insigni reliquie: una porzione della Corona di Spine, un pezzo del chiodo del Signore…etc. (Ingulphus, Historia Monasterii Crojlandensis Apud Pertz, Script. t. x, p. 460.

Nel 1205 Filippo Augusto, re di Francia donava alla chiesa di San Dionigi una Spina facente parte della Sacra Corona, ricevuta in dono da Baldovino I, che custodiva tutta intera nella cappella di Buccaleone a Costantinopoli.

Caduta Costantinopoli in mano dei Crociati nel 1204, Baldovino di Fiandra ritenne con sè la Corona di Spine trovata in Costantinopoli (Rohrbacher..), ma i Saraceni ed i Greci, tentarono sempre d’impossessarsene. Pertanto, profittando dell’assenza di Baldovino, Giovanni Vantaccio con le milizie cingeva d’assedio la città occupata dai Francesi. Intanto Baldovino alla notizia dell’assedio, raccoglieva in Francia uomini e oro per soccorrere i suoi, e Luigi IX (santo) per l’occasione, nell’intento di dare il suo valido contributo, cedeva la Contea di Vanicer. Solo allora Baldovino, dopo aver realizzato i suoi piani militari in segno di gratitudine, donò a Luigi IX la Corona di Spine. Era l’anno 1239.

Ad una attenta analisi le notizie innanzi riportate si presentano ovviamente anacronistiche e contrastanti, per la qual cosa non riesce comprensibile come la corona si trovasse nel 987 in Francia, giusta l’affermazione del Merra, e nel 1204 in Costantinopoli ove trovavasi ancora tutta intera.

Trascuriamo tali discordanze cronologiche e, coerenti, come siamo, al nostro abito mentale, al fine di evitare vane congetture ed ipotesi scarsamente probanti, continuiamo la nostra disamina storica. Ci limitiamo solo ad ammettere ipoteticamente che il sacro serto giacente nella nuova Bisanzio non doveva essere del tutto intero nella data testè riportata e che la “porzione della Corona di Spine” deve intendersi limitata nel numero, due o poco più, insieme con il pezzo di chiodo del Signore”, per una illazione del tutto personale ed arbitraria dello storiografo circa la consistenza quantitativa delle spine formanti la Corona del martirio di Cristo.

Partirono subito due inviati, Fra Andrea di Longiumò, da poco tornato dall’Oriente e un’altro religioso, che conosceva molto da vicino quei luoghi, nonché l’autentica della Corona di Spine, anche perchè come apostolo indefesso del Cristo, questi, per molti anni, aveva portato in quei luoghi l’affiato della cristianità.

Lo stesso Baldovino vi aveva mandato un suo inviato con akune lettere credenziali, sulla scorta delle quali la corona venne ceduta ai Veneziani al prezzo di lire 160mila.Quel giorno venne ratificato il contratto di cessione del sacro inestimabile tesoro e se ne fissò la data del riscatto.

Era il 19 giugno dell’anno 1237.

I Veneziani finalmente erano i veri, ma temporanei padroni della corona. Infatti verso l’incipiente inverno dell’anno 1237, precisamente nel mese di dicembre, previo esame della reliquia, appostivi i relativi sigilli della regia potestà francese, la nave salpò per Venezia con a bordo anche i due legati di Luigi IX. Quivi la corona fu deposta nella Cappella di S.Giovanni, con a guardia Fra Andrea di Longiumò. Intanto l’altro legato raggiungeva Parigi per ragguagliare il re.

Luigi IX inviava nuovi legati a Venezia con la somma dovuta per il riscatto. Così la sacra reliquia potè raggiungere la Francia. Il 10 agosto del 1238 a Sen fu portata in processione alla chiesa di Santo Stefano, il 12 partì alla volta di Parigi ove fervevano i preparativi del ricevimento. Colà fu deposta nella cappella di S. Nicola e poi nel 1241 nella Sainte Chapelle (Santa Cappella), così denominata, fatta costruire da Luigi IX nel suo palazzo, capolavoro d’arte gotica, completata nel 1248.

Per fatti esclusivamente accidentali pertinenti ai tempi burrascosi dell’ “età di mezzo” per i reiterati sismi che hanno sempre travagliato la nostra terra, per le immancabili rapine ed incendi dovuti alle continue scorribande nemiche,non è stato possibile rinvenire documenti storici, relativi alle nostre Sacre Spine.

Però è costante tradizione che esse furono donate a Carlo I d’Angiò in occasione della sua venuta ad Ariano, forse per ripagare o meglio risarcire i danni subiti dagli Arianesi a causa dell’eccidio perpetrato dai soldati di Manfredi e per essersi tenuti fedeli alla causa del Papato.

Infatti, alcuni soldati di Manfredi, non avendo l’esercito potuto espugnare le solide mura di Ariano, tentarono con l’astuzia d’introdursi in città. Era l’ anno 1255. Pertanto questi si presentarono alle porte della città e, dichiarandosi disertori, chiesero di combattere per la causa papale. La buona fede vinse la diffidenza degli Arianesi, i quali li accolsero nelle loro mura, ma quelli, durante la notte, uccisero le sentinelle ed aprirono le porte all’esercito saraceno. Orrore e morte invasero in breve la città, edifici diroccati, chiese bruciate, ovunque morte e distruzione; la maggior parte dei soldati, sorpresa nel sonno ed altri. svegliati di soprassalto, impreparati e disarmati, furono barbaramente trucidati. Sembra che la porta. in prossimità della piazza, abbia preso il nome di Carnale, a ricordo di sì orrenda strage.

Alessandro IV (1254-1261) e poi Urbano IV, per i delitti commessi da Manfredi e soprattutto per la distruzione della città di Ariano (vidilicet super destructione Civitatis Arianensis), lo scomunicarono, ma Manfredi non ne tenne in alcun conto. Clemente IV (1265-1268) che successe a Urbano IV (1261-1264) fu costretto a chiamare in Francia Carlo I d’Angiò, fratello di Luigi IX (santo), che fu incoronato re di Napoli e Sicilia.

Ben presto Carlo riportò varie vittorie e, dopo aver sconfitto l’esercito di Manfredi presso Benevento, in cui vi cadde ucciso il nipote di Costanza nel 1266, fatto altresì decapitare senza pietà Corradino di Svevia a Napoli nel 1268, rimase padrone assoluto del Napoletano e della Sicilia.

Essendo fratello di Luigi IX dovè portare con sè alcune spine ed infatti si dice che ne regalò una alla cattedrale di Napoli.

Dopo che Carlo I d’Angiò ebbe restaurato il regno, oompensò coloro che avevano partecipato alla sua conquista. Ariano toccò, insieme a Montefusco. Laurino, Paduli, Pungoli etc. a Enrico di Valdimonte, intimo amico del re Franco. Era il 27 giugno 1269. Fu in questa circostanza che Carlo dovè recarsi in Ariano e, avendo constatato di persona lo stato pietoso in cui era caduta la città, si diede a ricostruirla, riattò le chiese ed il castello gravemente diroccato. Fu in questo periodo che furono donate agli Arianesi due spine della cristica Corona consegnate “coram populo “ al Vescovo Pellegrino.

L’AUTENTICITÀ DELLE NOSTRE SPINE

Come innanzi dicevamo, per la carenza di documenti concernenti la sacra donazione, risulterebbe infirmata ogni autenticità se, da un attento studio comparato, la conformazione o meglio l’aspetto “unico della specie” di alcune spine, non ci dicesse e ci ragguagliasse circa la loro medesima origine.

Siffatte Spine, a conferma di quanto affermiamo, sono da ritenersi tutte autentiche non solo perché debitamente convalidate quasi sempre da relativo diploma di donazione, ma altresì dall’aspetto o forma particolare che ci portano a dedurre che la fonte di provenienza deve essere necessariamente la stessa. Eppure. se così non fosse. non riusciremmo mai a capire perchè, sin dai primi secoli della Chiesa, siffatte reliquie furono sempre oggetto di grande e profonda venerazione

Tuttavia la storia, intesa come narrazione degli avvenimenti umani con giudizio del loro valore e dell’opera degli uomini, non sempre può narrarci tutto integralmente. Perchè? Molteplici sono i fattori di simili naturali omissioni o di siffatti vuoti spazio-temporali. Spesso è la voce genuina del popolo che tramanda e perpetua nel tempo . avvenimenti lontani colti nella loro bellezza e suggestività.

Infatti dove la storia è carente, subentra la tradizione, la quale, essendo la “parastoria” degli umani avvenimenti, trasmette oralmente da generazione a generazione le antiche memorie di fatti realmente accaduti anche se spesso vengono alterati nella forma, e non nel sostrato contenutistico dall’alata fantasia popolare. Ma questo non può riguardare la nostra disamina e, per non digredire, riprendiamo la nar razione interrotta.

E’ tradizione che Carlo I d’Angiò abbia donato un spina a Sulmona, un’altra a Gifoni, un’altra ancora ad Andria e due ad Ariano. Infatti cosi scrisse il Flammia, ma, se cadde in errore per mancanza di documenti circa quella di Andria, non poteva non essere nel vero per quanto concerne la stessa origine e la stessa provenienza delle Sacre Spine.

Quella di Andria, però, non fu donata da Carlo I, ma da Beatrice d’Angiò, figlia di Carlo II d’Angiò e moglie di Azzo VIII d’Este, che sposò, poi, Bertrando del Balzo nello anno 1308 (vedi Monografie Andriesi di Merra-Bicordi di Andria Sacra di G. Ruotolo).

Però, prima di esaminare e confrontare le tre Spine in questione, è opportuno citare un documento trascritto nel 1586 da Luca Antonio Resta. Vescovo di Andria. Esso, ricco di suggestiva, poetica bellezza, è scritto in esametri incisi su teca artistica e originale che noi riportiamo integralmente, seguita da relativa traduzione.

Sulla teca originale erano incisi i seguenti esametri:

omissis

che in italiano suonano così:

“ Ecco una delle tante maggiori spine della Corona, con cui le mani crudeli (dei Giudei) trafissero le tempia sacrate di Gesù. Quando concorrono la Parasceve ed il venticinque di marzo,come è antica tradizione, allora questa, oh meraviglia!, si vede tutta insanguinata, imperciocchè suol essere aspersa di alcune gocce di sangue. A noi Carlo Il Re di Sicilia, la portò da Parigi, città capitale della Francia. Con cuore devoto, e con ginocchio piegato deve venererai questa del Redentore, che di roseo sangue bagnossi, quando, vendicatore dell’umana scelleratezza, tollerò le spine, come altrettanti aghi.

Cantiamo gratissimi cantici: Gloria al vincitore, e perenni monumenti di vittoria, imperciocchè con la fronte irta di spine fiaccò la potenza di Satana. Preghiamo tutti, affinché il Signore, per tanto pegno qui portato, gli conceda il felice regno del cielo”.

Ora volendo stabilire un raffronto tra la descrizione della Spina di Andria con quella che concerne le nostre due Spine, constatiamo ovviamente che esse appartengono alla Corona in quanto hanno la medesima struttura. Nulla da eccepire a riguardo perchè le abbiamo confrontate da vicino.Pertanto è bene citare, per quella di Andria, la descrizione del Vescovo Staiti: “La nostra spina-egli scrive -è lunga quattro dita e della grossezza di un grosso filo di spago, nel basso finimento; è di color cerognolo , ad eccezione della punta semifranta, che va a finire ad ago, e che è di color suboscuro. In esse si scorgono quattro macchie di color violaceo dalla parte di dietro alla incurvatura, ed un altro patente nel lato davanti, oltre ai molti altri punti a stento reperibili”.

Per quelle di Ariano ci serviremo della descrizione del Flammia: - Sono due: una alta quasi 7 centimetri, l’altra 6. Sono fini come uno spillone, dure, biancastre, meno la punta che. è scuro..

Il nostro Flammia ha omesso di dire che in alcuni tratti della superficie si riscontrano alcune macchie oscure. Esse sono conficcate in un ostensorio d’argento a forma di torretta gotica, la più alta nel mezzo, la piccola nel piano superiore.

Circa l’autenticità delle nostre Sacre Spine non ci sono più dubbi. Ma le altre sparse in molte Chiese d’Italia sono veramente tutte autentiche? Come è possibile che in Italia e altrove si contano centinaia di spine? Noi ci asteniamo dall’esprimere un nostro personale giudizio in quanto non le abbiamo tutte osservate da vicino.

In Alcuni articoli del Tursi (Avvenire d’Italia 19 - 20 marzo 1932) leggiamo: - Le Sacre Spine sono sparse in molte chiese. Al principio del secolo scorso Gosselin enumerava 27 Sacre Spine distaccate dalla santa corona ; nel 1882 R. De Fleurj ne contava 103; presentemente le cronache e gli inventari ce ne fanno conoscere un maggior numero.

Certamente se si consideri quale quantità prodigiosa di spine potesse contenere una massa di piccoli rami spinosi, riuniti insieme con un cerchio di giunchi sulla testa di nostro Signore Gesù Cristo, non andremmo lontano dal vero, affermando che siano state alcune centinaia. La maggior parte di esse sono semplici, isolate: alcune altre sono riunite su piccoli rami di due, tre, quattro. e cinque.

Com’è possibile questa quantità di Spine sparse in molte chiese del mondo? Non dobbiamo meravigliarci circa la molteplicità delle Spine esistenti. se si tiene presente la forma della Corona di Cristo L’iconografia sacra, nelle sue rappresentazioni. ci ha dato immagini falsate della vera corona. Essa, infatti, non era formata da una semplice fascia irta di spine che cingeva la fronte di Cristo, ma, come da testimonianza di scrittori antichi, era a «mo’ di pileo» (ad modum pilei - S. Vincenzo).

Il pileo era un cappello conico o ovale di pelle a volte di feltro in uso presso i Romani. Così scrive S. Vincenzo: - e posero sul capo aria corona, che lo ferì crudelmente in settantadue parti, infatti era a forma di pileo, da coprire e toccare il capo in ogni parte (et capiti eius imposuerunt coronam, quae eum septuaginta duobus locis crudeliter vulneravit, nam erat ad modum pilei, ita quod undique caput tegeret et tangeret).

Quale la natura delle Spine? Gli autori di storia sacra sono discordi sulle specie di spino che trafisse la fronte del Cristo.Alcuni asseriscono che fosse lo spino comune (il Rubus) altri il ranno (Rhamnus), altri l’acacia (in greco acanthè, spino),altri dicono fosse di giunco marino. E d’uopo ora passare in rassegna alcuni autorevoli autori.

Il Durand afferma di aver visto da vicino la Sacra corona e che essa è formata di giunco marino le cui spine sono lunghe e appuntite.

Il Baronio, impugnando una simile affermazione, ritiene che essa fosse intessuta di spine di ranno, e dello stesso parere sono il Grutzer, il Bellonius, e, andando a ritroso nel tempo, San Girolamo e San Gregorio Nisseno.

Il Searcer asserisce invece che fosse la brancorsina, mentre lo Hasselquist opta per una pianta simile all’ellera o per il pruno spinoso di Linneo.

A conclusione cosj si esprime il Tursi: - E’ singolare,però, che uomini degni di molta considerazione, come per esempio Benedetto XIV, Baronius, Grutzer Mamacus, Joseph Averanius, G. Muller siano stati poco d’accordo su di un fatto così facile a constatare, qual è quello della natura della Corona di Spine di cui abbiamo reliquie molto importanti. Gli scrittori sacri parlano di giunco e di rhamnus e le reliquie, ben osservate. ci fanno vedere del giunco e del rhamnus.

La corona di Cristo, dunque, data la foggia dovè essere prima intessuta di ranno e poi legata in più parti col giunco.

Auspichiamo che questo nostro modesto lavoro non sia stato del tutto vano anche se, ne siamo convinti, non raggiunge l’effetto desiderato.

Che gli Arianesi, però, sappiano sempre tenere nella dovuta stima un così inestimabile tesoro e che ricorrano in tutte le terribili calamità alla potenza taumaturgica delle Spine del Cristo; potenza non insita, come per un fenomeno di “ simpatismo occulto” nella loro particolare composizione chimica, ma scaturente dalla Onnipotenza divina, creatrice e conservatrice del cosmo infinito.

Che essi si dèstino e rinfocolino la loro fede in attesa che, per bontà divina, si ripeta in Ariano il prodigio dell’anno 1932. Era il giorno della Parasceve (venerdì santo), che, quell’anno, coincideva con la ricorrenza della festività dell’Annunciazione di Maria SS. (25 marzo). Essendo venerdì santo, il Capitolo non si era raccolto nel Duomo, come gli altri giorni dell’anno, per la recita del consueto ufficio di vino dell’ora terza. In sagrestia c’erano soltanto alcuni canonici, quando il mansionario Don Giuseppe D’Alessandro, ricordandosi di quello che, in simile occasione, si verifica in Andria, volle con i suoi confratelli osservare « de facie » le le Sacre Spine racchiuse nel reliquiario.

« Mirabile dictu »: le due spine presentavano in più punti piccole e rossastre chiazze sanguigne.

Non aggiungiamo altro.

Il nostro racconto, a cui attribuiamo, in ossequio ai decreti di Papa Urbano VIII, una fede puramente umana, potrebbe anche non avere attendibilità scientifica: cosi sembrerebbe, ma in effetti non lo è. Altri direbbe: forza psichica collettiva, maqica o biotica.

Noi invece, optiamo per il « soprannaturale », e, tralasciando ogni altro dettaglio, diciamo che non intendiamo polemizzare circa tali fenomeni. nè tanto meno il nostro lavoro e le ricerche ad esso pertinenti, ci consentono simili disquisizioni d’ordine teologico e, in linguaggio scientifico « paranormale o parapsicologico.

L’avvenimento inconsueto, per nulla propalato, l’abbiamo descritto cosi come ci é stato raccontato, e, dal momento che esso ci è giunto da pura fonte, non teme smentita.

Il prodigio si ripete, come ad Andria, ogni 20-30-40 anni,allorquando, come abbiamo testè detto, la Parasceve, (venerdì santo) coincide con la festività dell’Annunciazione di Maria Vergine (25 marzo).

Come sopra dicevamo, tutti gli Arianesi, per un simile incomparabile tesoro, avranno sempre una particolare, profonda venerazione e non lo cederebbero a chicchessia per tutto l’oro del mondo, come i nostri maggiori,nel 1600, si rifiutarono di cedere le due Spine ai Foggiani che ne fecero reiterata richiesta al Vescovo del tempo. Vengano pure, in folte schiere, gli agricoltori delle vicine contrade; si portino gementi, nel Duomo, le giovani contadine, con le chiome sciolte, cinte di biancospino o d’ellera, e cantino così «come ditta dentro» la loro nenia accorata:

“Spina pungente ca

pungisti lu miu Signore

pungimi stu còre

e cunverti lu piccatore,,

Scenda copiosa e ristoratrice la pioggia sui campi arsi dalla siccità e, all’uopo, si disperdano i densi e neri nembi apportatori di piogge devastatrici. Risplenda cosi sull’agro arianese e su quello dei paesi limitrofi il sole fecondatore e, sul mondo convulso, scenda radiosa la luce della giustizia, della carità e della pace tanto auspicata dagli « uomini di buona volontà ».

da FRAMMENTI raccolti da Lello Guardabascio -Politografica Ruggiero - luglio 1982


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